Debito pubblico. Se la pandemia rende obsoleti i parametri di Maastricht
Per risollevarsi dalla pandemia, gli Stati devono investire. Anche facendo ricorso al debito pubblico. Anche sforando i vincoli di Maastricht
Indebitatevi. Indebitatevi senza paura se questo vi consente di superare la crisi pandemica, pagare le misure di welfare e intraprendere quella transizione ecologica che ormai non si può più rimandare. Queste parole sarebbero suonate come un’eresia anche solo un decennio fa, quando l’austerity era il diktat che metteva d’accordo le principali autorità economiche internazionali (ma non i cittadini che ne pagavano il prezzo sulla propria pelle). Oggi invece l’ortodossia del debito – quella che porta l’Unione europea a restare aggrappata con le unghie e con i denti ai parametri di Maastricht, per intenderci – appare superata da parecchie analisi economiche. E, soprattutto, dai fatti.
Biden rilancia l’economia Usa a suon di debito pubblico
Partiamo con i fatti, appunto. I fatti dicono che Joe Biden, da quando ha iniziato il suo mandato come presidente degli Stati Uniti, ha varato diversi piani per ridare vigore all’economia dopo la brusca battuta d’arresto dovuta al Covid-19. Ha cominciato con l’American Rescue Plan da 1.900 miliardi di dollari, tra aiuti diretti ai lavoratori e alle famiglie con bambini, aumento del salario minimo, fondi federali per le piccole e medie imprese, riaperture delle scuole e così via. Poi è stato il turno del piano per le infrastrutture, firmato il 15 novembre 2021 dopo mesi di scontri politici. Altri mille miliardi di dollari.
Mai, nell’ultimo decennio, era stata stanziata una cifra simile per rimettere in sesto strade, porti, ferrovie, ponti e rete internet, oltre che per adattare il territorio all’impatto del clima. Resta ancora in standby il piano socio-ambientale ribattezzato Build Back Better. Se si sbloccherà, varrà altri 1.850 miliardi.
Ma c’è un però. Anche prima che venissero annunciati questi colossali investimenti, il Congressional Budget Office, un’agenzia federale che fornice dati economici al Congresso, stimava che il peso del debito americano sul PIL fosse destinato a raddoppiare in trent’anni. Per essere precisi, passando dal 102% del PIL nel 2021 al 202% nel 2050.
I punti deboli dei parametri di Maastricht
Letteralmente un altro pianeta rispetto ai parametri di Maastricht che noi europei abbiamo imparato bene a conoscere negli ultimi tre decenni. Secondo i quali il deficit (cioè la differenza tra entrate e spese dello Stato in un anno) non deve superare il 3% del PIL e il debito (cioè la somma dei deficit accumulati di anno in anno) non deve sforare il 60%. Queste sono ritenute condizioni fondamentali per assicurarsi che un’economia sia solida e possa quindi restare nell’Eurozona senza costituire un rischio per la sua stabilità.
Ma siamo sicuri che questi criteri siano scolpiti nella pietra? Avanzare qualche dubbio è lecito, per varie ragioni. Innanzitutto, per stessa ammissione di chi l’ha proposto, il famoso rapporto deficit/PIL al 3% è nato quasi per caso, da una discussione non suffragata da valide analisi scientifiche. Il rapporto al 60% tra debito e PIL, sostiene inoltre un’analisi pubblicata da Alternatives Economique, mostra un’altra debolezza concettuale: mette in relazione uno stock, cioè il debito totale accumulato nel corso di decenni, con un flusso, cioè il valore dei beni e dei servizi prodotti in un anno. Logicamente ha molto più senso parametrare un flusso a un altro flusso. In questo caso, dunque, a essere rapportato al PIL dovrebbe essere non il volume del debito, bensì il pagamento annuale degli interessi su di esso. Che, al momento, sono bassissimi. Pressoché stracciati.
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La proposta di Furman e Summers
Da qui la proposta lanciata da due studiosi che di per sé sono tutto fuorché dissidenti. Vale a dire Jason Furman, professore all’università di Harvard e capo consigliere economico di Barack Obama nel suo secondo mandato, e Lawrence H. Summers, segretario al Tesoro durante l’ultima presidenza di Bill Clinton, rettore di Harvard nel quinquennio 2001-2006 e direttore del National Economic Council tra il 2009 e il 2010.
«È ora che Washington si lasci alle spalle la sua ossessione per il debito», scrivono a fine 2019 su Foreign Affairs, e che si concentri piuttosto su «proficui investimenti nell’educazione, nella salute e nelle infrastrutture». Questa linea, che poi Joe Biden ha fatto propria, è resa praticabile – anzi, vantaggiosa – proprio dai tassi di interesse che si mantengono ben al di sotto della media storica. Insomma, per gli Stati non è mai stato così conveniente indebitarsi. Sarebbe decisamente un peccato non approfittarne.
Che fare, però, quando i tassi torneranno a salire? Non succederà, replica Alternatives Economique. O, perlomeno, non a stretto giro. La popolazione globale tende sempre più ad accumulare risparmi, sia perché invecchia, sia perché le disuguaglianze crescenti spostano le risorse nelle tasche di un’élite di ricchi. Le aziende preferiscono distribuire dividendi più che investire. E le banche centrali sembrano non avere ancora nessuna intenzione di alzare i tassi.
Perché non allungare la durata del debito pubblico?
Se proprio si teme che un futuro aumento dei tassi di interesse abbia un impatto significativo sul costo del debito, c’è pur sempre una possibilità: emettere titoli di Stato con una scadenza più lunga. Una strada che ora appare percorribile e, anzi, vantaggiosa. È vero infatti che un bond a 30 anni ha giocoforza un rendimento superiore a quello di un bond a 5 anni e, quindi, costa di più all’emittente. Ma è anche vero che la differenza appare infinitesima, se paragonata alla convenienza di poter incamerare liquidità per decenni. E, soprattutto, di “congelare” i tassi stracciati che caratterizzano questo momento storico.
Qualche cifra. A marzo 2021, si legge nel sito dell’Osservatorio Conti Pubblici Italiani, un BTP a 5 anni aveva un rendimento leggermente negativo, uno a 30 anni invece pagava un rendimento dell’1,6%. Nel primo quinquennio, dunque, lo Stato con il primo ci guadagna. Dopodiché, è costretto a rinnovarlo al tasso d’interesse vigente. Se quest’ultimo sale sopra il 2%, ecco che il BTP a trent’anni diventa più conveniente.
Già, ma gli investitori sono pronti ad acquistare titoli con una scadenza così lontana nel tempo? Sembrerebbe proprio di sì, a giudicare dal fatto che la Francia a gennaio ha collocato un bond a cinquant’anni da 7 miliardi di euro, con un tasso dello 0,593%. E gli ordini hanno superato i 75 miliardi.
Verso un progressismo dal lato dell’offerta
Gli investimenti pubblici potrebbero dare il là a una stagione che Ezra Klein, in un editoriale pubblicato dal New York Times, propone di ribattezzare come “progressismo dal lato dell’offerta”. Lo fa sparigliando volutamente le carte. Tradizionalmente, infatti, da un lato c’è la politica keynesiana che preme per l’intervento dello Stato per stimolare la domanda. Dall’altro lato c’è la supply side economics, una teoria affermatasi negli anni Ottanta per la quale incoraggiare l’iniziativa privata è la strategia migliore per allocare le risorse in modo efficiente. Tradotto: la supply side economics è quella che consiglia di tagliare le tasse perché, così facendo, aumentano i consumi e quindi anche la produzione e il PIL.
L’assistenza sanitaria universale, la previdenza, il reddito universale e molte altre basilari misure di stampo progressista si focalizzano proprio sulla domanda. Ma perché non soffermare l’attenzione anche sulla creazione di quei beni e di quei servizi così determinanti per la qualità della vita dei cittadini? Se manca questo passaggio, di fatto si sovvenziona il consumo di risorse scarse, alzandone a dismisura i prezzi e trovandosi quindi imbrigliati in un circolo vizioso.
Quando l’intervento dello Stato è l’unica possibilità
Il progressismo dal lato dell’offerta apre la strada a un’opportunità: quella di «prendere le tecnologie del futuro che i progressisti vogliono, e portarle nel presente in cui vivono». Già, perché, di pari passo con la redistribuzione delle risorse, servono tecnologie capaci di affrontare le sfide del nostro tempo e di farlo in modo equo e sostenibile. Un esempio? Per arginare il riscaldamento globale non basta un sussidio a ogni cittadino per l’acquisto di energia pulita. Servono anche gli impianti che quell’energia pulita la producano a costi accessibili. Biden sembra essersi incamminato in questa direzione. Ammettendo così, seppure indirettamente, che i mercati non si regolano da soli.
Aiutare le persone ad accedere a quei beni e servizi che non possono permettersi con il loro stipendio, conclude l’editoriale, «renderà l’oggi più equo. Ma, per garantire che il domani sia radicalmente migliore, dobbiamo cercare i punti di strozzatura del futuro che immaginiamo, gli spazi in cui l’economia non può fornire le cose di cui abbiamo bisogno, o non lo farà. E poi dobbiamo risolverli».