L’altra faccia del sistema dei carbon credit
Il sistema dei carbon credit consente di compensare le emissioni di CO2, ma porta anche con sé alcune evidenti storture
Da qualche anno, nei siti web delle multinazionali campeggiano le foto di sterminate distese di alberi. Sono quelli piantati per ottenere in cambio i carbon credit, necessari per compensare le emissioni di gas serra. Un meccanismo ormai collaudato e sempre più richiesto, vista l’urgenza di decarbonizzare il sistema economico. Ma segnato anche da visibili storture.
Cosa sono e come funzionano i carbon credit
Una qualsiasi organizzazione – azienda, governo, ente locale – che si impegna per il cosiddetto net zero deve, innanzitutto, ridurre le proprie emissioni, per esempio installando pannelli fotovoltaici per auto-produrre energia pulita, oppure sostituendo gli spostamenti in auto con quelli in treno. È inevitabile però che generi ancora una quota residua di emissioni, più o meno grande; per azzerarle deve quindi ricorrere alla compensazione (offsetting). Ed è qui che entrano in gioco i carbon credit.
Questa espressione si può tradurre letteralmente come crediti di carbonio o, in modo più preciso, come certificati di riduzione delle emissioni. Il loro funzionamento è legato a progetti che riducono le emissioni o le assorbono; tipicamente la costruzione di impianti che producono energia da fonti rinnovabili, oppure le attività di riforestazione o gestione forestale sostenibile. Esistono organismi indipendenti che monitorano l’esito di questi progetti, calcolano la quantità di CO2 evitata e rilasciano i carbon credit corrispondenti. Questi ultimi vengono poi acquistati da chi ne ha bisogno per raggiungere i propri obiettivi climatici.
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Gli agricoltori pigmei sfrattati per fare spazio alle acacie di Total
Tra le aziende che puntano al net zero entro il 2050 c’è anche la francese TotalEnergies. Un obiettivo non da poco, per uno dei maggiori colossi petroliferi del mondo, e che richiederà dunque un uso massiccio dei carbon credit. Avrà pertanto un ruolo determinante la gigantesca piantagione di acacie che l’azienda sta finanziando nella Repubblica del Congo, nell’altopiano di Batéké. Si estenderà su un’area pari a 40mila ettari, quattro volte la superficie della città di Parigi. Una volta entrata a regime, potrà sequestrare più di dieci milioni di tonnellate di CO2.
Peccato, però, che nella stessa area ci siano i campi di manioca di quasi cinquecento agricoltori, per lo più appartenenti al popolo indigeno dei pigmei. Persone che a novembre del 2021, da un giorno all’altro, sono state allontanate dalle loro terre e dai loro mezzi di sussistenza per fare spazio alle piantagioni. Erano in affitto e la proprietà ha ceduto tutto a Forest Neutral Congo (FNC), filiale locale di TotalEnergies, con l’intermediazione del governo.
La multinazionale francese, attraverso un comunicato stampa, assicura che «sono in corso valutazioni per finalizzare la mappatura degli attori e proporre misure che consentano loro di essere co-beneficiari del progetto». E promette di offrire loro delle «alternative». Mentre si cerca una mediazione, nella zona la farina di manioca inizia a scarseggiare e il suo costo aumenta. Con tutto ciò che ne consegue in termini di sicurezza alimentare.
Il Gabon tagliato fuori dai carbon credit
Ci sono anche luoghi che di alberi ne hanno già più che in abbondanza. È il caso del Gabon, nazione che confina proprio con il Congo e si affaccia sulla costa atlantica dell’Africa centrale. Su un territorio di circa 26 milioni di ettari, ben 22 sono coperti da una fitta foresta tropicale che è tra le migliori al mondo in quanto a capacità di assorbire CO2. Un patrimonio collettivo che peraltro è rimasto praticamente intoccato negli ultimi decenni. Dal 1990 in poi ne è andato perso meno dell’1%, contro il 14% dell’Africa continentale nel suo insieme.
Tutelare questo polmone verde, però, non è redditizio. Perché i carbon credit, spiega un approfondimento di Bloomberg, ad oggi spettano soltanto a quei progetti che dimostrano un miglioramento rispetto a una condizione precedente, per esempio attraverso la piantumazione di nuovi alberi o il ripristino di foreste degradate. Condizioni che il Gabon non soddisfa, perché le foreste le ha sempre protette.
Nel 2015 ha preso il via un’iniziativa volta a sostenere in termini finanziari gli Stati dell’Africa centrale per il loro contributo al raggiungimento dell’Accordo di Parigi, la Central African Forest Initiative (CAFI). Nel 2021 il Gabon ha ricevuto il suo primo pagamento: 17 milioni di dollari. Ad oggi, l’industria del legname – seppure strettamente regolamentata – ne frutta un miliardo all’anno. Se volesse guardare solo la convenienza economica, il governo avrebbe pochi dubbi sulla direzione da intraprendere.