Com’è possibile che la fast fashion finisca nei fondi sostenibili
I fondi articolo 8 e articolo 9 investono miliardi nei grandi marchi della fast fashion, nonostante il gigantesco impatto ambientale e sociale del settore
Sappiamo che la fast fashion, cioè la moda che sforna decine di collezioni all’anno vendute a prezzi stracciati, ha fatto quasi raddoppiare la produzione globale di fibre tessili nell’arco di vent’anni: da 58 milioni di tonnellate nel 2000 a 116 milioni nel 2022. Con tutto ciò che ne consegue in termini ambientali, visto che oggi più della metà di queste fibre è poliestere (un derivato del petrolio). Sappiamo che il ciclo di vita dei prodotti tessili è sempre più breve: ogni cittadino europeo, in media, ne consuma quasi 26 kg all’anno e ne smaltisce 11 kg. Sappiamo che le condizioni di lavoro in certe fabbriche del Sud del mondo sono a dir poco preoccupanti, come dimostrano le inchieste – tra le altre – della Clean Clothes Campaign. Se è così, cosa ci fanno i titoli dei colossi della fast fashion all’interno dei fondi sostenibili?
I settori più inquinanti scelti dai fondi articolo 9
I fondi classificati come articolo 9 ai sensi della Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR) hanno la sostenibilità come obiettivo principale e puntano a perseguire risultati specifici, in parallelo a quelli finanziari. Devono dunque rispettare parametri ben precisi che, peraltro, sono diventati più rigidi a partire dal 2023, con l’entrata in vigore delle nuove norme tecniche. Anche i fondi articolo 8 promuovono caratteristiche ambientali e sociali, ma possono collocare denaro anche in attività di altro tipo.
I ricercatori di Voxeurop e della European Investigative Collaboration, però, hanno passato in rassegna circa 4mila fondi sostenibili gestiti da quasi 800 società finanziarie europee. E sono andati a cercare gli investimenti in 200 tra le imprese più inquinanti del mondo. Ebbene, il totale è di 85 miliardi di dollari da parte dei fondi articolo 8 e altri 2 miliardi da parte dei fondi articolo 9 (i dati si riferiscono al quarto trimestre del 2023).
In testa alla top 10 delle aziende beneficiarie c’è la compagnia petrolifera francese TotalEnergies, seguita da Shell. Sul terzo gradino del podio compare uno dei grandi nomi della fast fashion. Si tratta di Inditex, il gruppo a cui fanno capo Zara, Stradivarius, Oysho, Bershka e altri brand. Un’azienda che, per risparmiare tempo, spedisce i vestiti in aereo dal proprio centro di smistamento di Saragozza al ritmo di 100 tonnellate a settimana. Tant’è che le sue emissioni legate ai trasporti hanno fatto un balzo in avanti del 37% tra il 2022 e il 2023.
Anche la testata specializzata Responsible Investor è andata alla ricerca dei titoli di Inditex e del suo principale rivale, H&M, nei portafogli dei fondi sostenibili. Li ha trovati rispettivamente in 49 e 31 fondi articolo 9.
La posizione della finanza sostenibile nei confronti della fast fashion
C’è anche chi decide di dare un taglio netto. È il caso dell’olandese ASN Impact Investors che, durante l’estate, si è liberata delle quote di dodici società di fast fashion detenute da sette suoi fondi articolo 9. Per un valore di circa 70 milioni di euro. Il motivo? Le aziende (sempre Inditex e H&M, ma anche Asics, Asos e altre) non avrebbero fatto abbastanza progressi in materia di sostenibilità. Prima di arrivare a questa decisione, spiega Responsible Investor, l’asset manager ha messo nero su bianco una definizione di fast fashion. Dopodiché, ha identificato alcuni criteri minimi che le aziende dovrebbero rispettare: sforzarsi di ridurre il numero di collezioni, migliorare la qualità dei capi, far sì che durino di più e possano essere riciclati. Scoprendo che alcune aziende stanno facendo passi avanti e altre meno ma, ad oggi, nessuna li rispetta tutti e quattro.
Altri asset manager, sempre intervistati da Responsible Investor, adottano un approccio più morbido. Sottolineando per esempio come sia Inditex sia H&M abbiano annunciato obiettivi di riduzione delle emissioni science-based, cioè coerenti con gli sforzi per contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi. Inoltre, tecnicamente non infrangono il principio Do Not Significant Harm (non arrecare danni significativi). Alla luce di questo, tali società finiscono negli indici ESG – come il MSCI World Climate Paris Aligned Index – e dunque nei portafogli dei fondi passivi.
Interpellate dalla testata, le organizzazioni non governative che lavorano nel settore non escludono totalmente l’ipotesi che un marchio di fast fashion entri in un fondo sostenibile. Chiedono però garanzie più solide. «Gli investitori dovrebbero assicurarsi che il mandato dei fondi garantisca la due diligence sui brand di moda presenti», sottolinea per esempio Richard Wielechowski di Planet Tracker. «Idealmente, credo che questo debba significare qualcosa di più rispetto ad affidarsi semplicemente al rating ESG di un fornitore esterno. Piuttosto, bisognerebbe capire realmente cosa i brand stanno facendo e se i loro sforzi sono concreti e rilevanti».