«Il mondo va verso un nuovo tribalismo, possiamo salvarci solo col dialogo»
Crisi climatica, conflitti, speculazione. Per cambiare strada, al mondo servono dialogo e cooperazione. Intervista al sacerdote ed economista Gaël Giraud
Economista, sacerdote, gesuita, Gaël Giraud ritiene che le grandi banche internazionali scontino oggi decenni di business legati alle fonti fossili. Attività che rischiano presto di diventare degli stranded assets: per questo occorre una soluzione che coinvolga anche le istituzioni. Ma in generale, per il clima così come per i conflitti crescenti, la sola strada che l’umanità ha a disposizione per evitare la catastrofe è quella che passa per il dialogo, la cooperazione e la solidarietà.
Il docente universitario sarà presente al sedicesimo Meeting annuale della Global Alliance for Banking on Values (Gabv), alleanza di 70 tra banche e istituti finanziari che gestiscono complessivamente asset per oltre 210 miliardi di euro. Giraud interverrà presso l’Aula Magna dell’università di Padova assieme a Stefano Quintarelli – imprenditore, membro del Leadership Council dell’Onue componente del gruppo di esperti di alto livello sull’intelligenza artificiale della Commissione europea.
Nel 2019 lei disse che non si riescono ad imporre profonde riforme nel sistema finanziario a causa delle grandi banche globali. Sono passati cinque anni da allora: la situazione è cambiata?
Il problema oggi è legato al fatto che non c’è una separazione tra banche d’investimento e banche retail, il che comporta una minaccia, poiché nel caso in cui crolli la divisione investment, il problema si può ripercuotere direttamente sui risparmiatori. E allora gli Stati sono obbligati ad intervenire per salvare gli istituti di credito: altrimenti il costo per garantire i depositi sarebbe troppo alto. Se guardiamo a questo aspetto devo dire che la situazione non è cambiata: abbiamo ancora la stessa architettura.
E anche da un punto di vista più generale, non ci sono stati enormi avanzamenti sulla regolamentazione finanziaria.
Tuttavia, va detto che ci sono molte riflessioni positive, ad esempio sui rischi climatici: oggi le banche sono ad esempio sottoposte a stress test sui loro business e c’è un dialogo più stringente con le banche centrali. Chiaramente, però, non basta: penso che serva una nuova regolamentazione, una Basilea IV che imponga accantonamenti di fondi propri alle banche proporzionali ai rischi climatici che si assumono nei loro business. E su questo penso che la maggior parte delle banche sia pronta al dialogo.
Quella climatica, in effetti, è forse la più grande sfida che ha di fronte l’umanità. Negli ultimi anni nel settore finanziario sono sorte numerosissime iniziative, alleanze. Eppure le 60 più grandi banche del mondo, in soli 7 anni, hanno concesso ai combustibili fossili 5.500 miliardi di dollari. Perché questa incoerenza così macroscopica?
Ci sono molti fattori che incidono. Da una parte c’è una presa di coscienza che manca da parte degli azionisti, il che spinge ancora molte banche nella direzione sbagliata. Poi c’è una questione legata all’eredità imposta da decenni di scelte precise, operate non solo dalle banche ma dall’intera società: con l’Istituto Rousseau abbiamo pubblicato un rapporto nel 2021 nel quale abbiamo mostrato come l’esposizione di solamente undici colossi bancari europei verso le fossili sia di 530 miliardi di dollari: parliamo, in media, del 95% del totale dei fondi propri di quegli stessi istituti di credito. Ovvero i capitali di riserva, utili per fronteggiare eventuali perdite.
Ecco, se si andrà velocemente verso la transizione ecologica, quei business diventeranno stranded assets (asset incagliati, che rischiano di trasformarsi in gravi perdite, ndr). È per questo che serve una riflessione su come “salvare” le banche dall’eredità di scelte effettuate negli ultimi quarant’anni. La domanda è: come facciamo a liberarle da questi asset, che sono oggi l’equivalente di quello che furono fino al 2007 i mutui subprime.
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Quali strade si possono percorrere?
Un’idea è creare delle bad bank, che acquistino questi asset e ne gestiscano la perdita di valore. Si tratta però di un’ipotesi buona per le banche, molto meno per i consumatori, perché alla fine sono gli Stati così a pagare il conto. Io credo invece che una soluzione possa essere chiedere alla Banca centrale europea di fungere lei da bad bank: in questo modo non si graverebbe subito sul debito pubblico degli Stati. Certo, occorre un grande dibattito su questo, che coinvolga anche altre banche centrali e soggetti come il Fondo monetario internazionale.
Dopo il fallimento della Cop25, il carbone salvato all’ultimo minuto alla Cop26, la mitigazione “dimenticata” alla Cop27, la Cop28 in “trasferta”, anche il prossimo appuntamento sarà in un Paese petrolifero, l’Azerbaigian. Secondo lei le Cop sono ancora lo strumento giusto?
Penso che sia fondamentale mantenere in vita le piattaforme indispensabili per la discussione. Oggi la comunità internazionale è minacciata, e per questo è quanto mai necessario continuare a parlarsi. Detto ciò, le Cop non sono ben organizzate a mio avviso. Abbiamo qualche centinaio di persone che negoziano, qualche migliaio che si mettono in vetrina nella blue zone e decine di migliaia in strada ad avvertire che andiamo incontro all’apocalisse. La domanda è come riuscire a creare una vera discussione tripartita, con gli Stati, le imprese e la società civile alla pari. Inoltre, occorre sostenere quelle nazioni che sono pronte a cambiare strada. L’abbiamo visto con il Sudafrica che alla Cop27 ha lanciato un’iniziativa di “scambio” tra debito e azione climatica, un debt-for-climate swap. È una strategia ottima, ma per poterlo fare, anche qui, servono interlocutori e dialogo.
Per cambiare le cose servono regole. E le regole le fanno parlamenti e governi. Alle prossime elezioni europee sembrano destinate a prevalere forze conservatrici. Tuttavia, anche quando nelle singole nazioni hanno governato i progressisti di vere svolte non ne abbiamo viste…
Non penso sia un problema riconducibile alla contrapposizione destra-sinistra, anche se è vero che quest’ultima spesso non ha fatto meglio, e anzi a volte ha fatto anche peggio. Fu Clinton alla fine degli anni Novanta ad abolire il Glass-Steagall Act che imponeva la separazione tra banche d’investimento e banche retail. In generale, mi spiace dirlo, ma c’è un problema di incompetenza a sinistra. Mentre a destra ci si illude ancora di poter evitare la tempesta, sottovalutando il rischio climatico. Però va detto che qualcosa si muove. Nel mondo della riassicurazione, ad esempio, ormai i rischi legati al riscaldamento globale sono presi in considerazione.
Negli ultimi due anni si è parlato molto di tassazione degli extraprofitti bancari. Qual è la sua opinione in merito?
In generale penso che sia necessaria. Occorre un riequilibrio complessivo sulla fiscalità, che da anni è molto favorevole ai grandi gruppi internazionali, e non parlo solo delle banche. Anche su questo tema occorre aprire un grande dibattito. Con l’Istituto Rousseau abbiamo proposto di semplificare le regole e aprire, appunto, una riflessione. Ma va detto che la fiscalità non potrà bastare per affrontare la crisi climatica: abbiamo calcolato che per completare la transizione ecologica servirà il 2,3% del Pil dell’Eurozona, tutti gli anni fino al 2050. È ovvio che non basterà dunque tassare le banche: è giusto farlo per una questione di riequilibrio, ma non è una soluzione magica. Anche in questo a volte la sinistra sbaglia, pensando che lo sia.
In Europa la Febea e a livello mondiale la Gabv propongono un altro modo di fare finanza. Tuttavia la sostenibilità ormai, almeno a parole, la fanno tutti. Secondo lei le regole attuali, a partire dalla tassonomia europea, sono sufficienti per orientare i risparmiatori?
No, non bastano. Abbiamo delle banche che da una parte fanno investimenti green e dall’altro insistono sul petrolio. È una forma di schizofrenia. Un investitore, per orientarsi nel modo giusto, dovrebbe comprendere tutto questo grande meccanismo. È inevitabile che si faccia confusione e sia difficile capire quali sono banche le davvero sono orientate alla sostenibilità. Per gli investitori oggi non è semplice sfuggire al greenwashing.
Papa Francesco nell’esortazione apostolica Laudate deum spiega che il sistema economico attuale è insostenibile. Possiamo salvare il clima della Terra rimanendo nell’attuale modello di sviluppo?
Se provassimo ad avviare un dibattito su questo tema rimarremmo a parlarne almeno per 15 anni. E non abbiamo questo tempo a disposizione. Dobbiamo concentrarci su cosa concretamente possiamo fare. Una road map verso la net zero con misure chiare su trasporti, energia, immobiliare, territori. Alla fine di questo percorso saremo usciti dal capitalismo? Non lo so. Ma ciò che conta ora è ragionare con gli strumenti che abbiamo a disposizione. Pensiamo al WTO, che oggi si trova impossibilitato a contrastare ciò che succede nei mercati internazionali delle commodities, perché questi sono ormai governati non dalle regole della domanda e dell’offerta ma dalle speculazioni sui derivati. Perfino il WTO è impotente, perché non ha autorità su tali mercati finanziari. L’estrema finanziarizzazione dell’economia è il problema principale.
Il segretario generale dell’Onu António Guterres ha dichiarato che è folle osservare come il mondo spenda più soldi in armi che per il contrasto alla crisi climatica o alla fame nel mondo. Secondo lei questi argomenti fanno presa sull’opinione pubblica?
Bisogna capire, come spiegato dal Papa, che il rischio è di arrivare ad una terza guerra mondiale combattuta a pezzi, con l’obiettivo di accaparrarsi risorse. Pensiamo all’Ucraina: è un eldorado agricolo che può nutrire centinaia di milioni di persone per un secolo. Per non parlare delle risorse minerarie, non solo in termini di uranio. Guterres ha perfettamente ragione in questo senso. Per cui, o cediamo alla tentazione della guerra, oppure ci coordiniamo a livello internazionale, cooperiamo e ripartiamo le risorse in modo intelligente.
L’umanità è capace di farlo?
Non posso che continuare a sperare di sì.
In conclusione: possiamo ancora avere speranza se…?
Se sceglieremo la cooperazione ed eviteremo la dissoluzione della comunità internazionale. Oggi il mondo è minacciato da un nuovo tribalismo, basti pensare a come il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si sia diviso su pandemia, Ucraina, crisi climatica e oggi Striscia di Gaza. Il rischio è di assistere ad una scomparsa silenziosa degli organismi deputati alla cooperazione. Ecco: ciò che mi dà speranza è osservare iniziative internazionali che permettono di mantenere aperto un dialogo.