«I no-global avevano ragione. Oggi il liberismo è come uno zombie»

Da Genova ai giorni nostri: genesi, repressione e eredità del movimento no-global. Intervista all'economista Mario Pianta

L’economista Mario Pianta, docente di Politica economica presso l’università di Urbino © Post.uniurb.it

Due decenni fa il “movimento dei movimenti” espresse critiche radicali al sistema economico e finanziario globale. I no-global erano stati capaci di individuarne i punti deboli e di prevedere le crisi che tale modello di sviluppo avrebbe partorito. Mario Pianta, docente di Politica economica alla Scuola Normale Superiore di Firenze, analizza la genesi di quel movimento (da Seattle a Porto Alegre), la repressione che ha subito al G8 di Genova e l’eredità che ha lasciato.

Le analisi, le denunce e le previsioni avanzate dal movimento no-global al G8 di Genova furono trattate come estremismi e represse. Eppure, a 20 anni di distanza, le critiche al sistema sono più che mai attuali.

È esattamente così. Il G8 di Genova nasce all’indomani del lancio del forum sociale mondiale a Porto Alegre come un tentativo di contrastare il progetto di globalizzazione neoliberista che era stato lanciato negli anni Ottanta e che ha avuto un’accelerazione negli anni Novanta, con la globalizzazione del commercio e la finanziarizzazione del sistema economico. Di fronte a tutto ciò, quel movimento chiedeva impegni sulla tutela dell’ambiente. Sul lavoro. Si batteva contro la corsa al ribasso. Contro la concorrenza basata sull’impoverimento dei lavoratori

20 anni dopo

Genova per noi

Sono passati vent’anni dal summit del G8 di Genova del 2001. Dalla repressione nel sangue di idee e proposte che, oggi, è impossibile non ritenere in larghissima parte giuste. …

Che periodo era quello, dal punto di vista economico e politico?

Quei movimenti nascevano alla fine del 1999 con la protesta di Seattle. Il contesto era costituito da un’agenda di neoliberismo “duro” imposta dai poteri economici e dagli stati più forti. C’era stata un timida opposizione di alcuni governi europei, che proponevano un’opzione più socialdemocratica che apriva alla globalizzazione, ma con tutele per l’ambiente, il lavoro, i salari. Questa seconda strada fu sconfitta. A quel punto, l’unica possibilità era una “globalizzazione dal basso”, l’alternativa avanzata dai movimenti. E proprio quello è il titolo del mio libro del 2001, pubblicato da Manifestolibri.

«Il movimento no-global nasceva nel contesto di un sistema basato sul neoliberismo duro. Mentre l’opzione socialdemocratica era stata sconfitta»

Che da Seattle passò per Porto Alegre e poi arrivò a Genova nel 2001. 

Il 2001 fu un momento importante, poiché l’agenda di quel modello di globalizzazione si consolidò. La Cina entrava nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e ebbe un ruolo decisivo con un aumento della capacità produttiva in campo industriale, assieme ad altre nazioni asiatiche. Oggi è l’area che cresce di più al mondo, anche nell’alta tecnologia.

Cosa ha comportato quel tipo di globalizzazione?

Innanzitutto una forte concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Il potere è appannaggio dei Paesi più avanzati, e il fronte cinese non ha indebolito più di tanto le potenze occidentali. Inoltre, l’accelerazione della finanziarizzazione ha imposto un distacco sempre più marcato tra finanza ed economie reali. Ciò rappresenta la radice di tutti i problemi. La crisi finanziaria del 2008, l’accelerazione dei cambiamenti climatici e l’aumento delle diseguaglianze. Reso ancor più evidente con la pandemia. 

Il movimento no-global a Genova per il G8 del 2001
Il movimento no-global a Genova per il G8 del 2001 © Mirko Credito

Torniamo a Genova e al 2001, cosa successe dopo?

Centrale fu l’aspetto politico-militare. Subito dopo Genova c’è stato l’11 settembre ed è iniziata una fase di scontro militare. La strategia americana di recupero del potere prende la via dell’invasione dell’Iraq, con il falso pretesto che collegava Saddam Hussein all’attacco alle Torri Gemelle. Quella strada alimentò a sua volta un’accelerazione dei conflitti e dei processi repressivi. Quel modello di globalizzazione, anziché assicurare pace e stabilità, si rivelò dunque drammatico anche da questo punto di vista. In Afghanistan e poi in Medio Oriente, con il moltiplicarsi di Stati travolti da conflitti civili ed etnici. A ciò si è aggiunto un indebolimento drammatico degli Stati dell’America Latina, che si sono trovati incapaci di governare quei processi sociali ed economici. 

È l’altra faccia della globalizzazione: la sorte dei Paesi meno ricchi

Nelle nazioni povere sono stati imposti modelli di sfruttamento delle risorse naturali senza controllo. Senza uno sviluppo delle capacità produttive, né redistribuzione della ricchezza. La polarizzazione tra, da un lato, i centri finanziari globali – Wall Street e City di Londra su tutti – e, dall’altro, la disgregazione nei Paesi poveri rappresenta un’estremizzazione che, dopo il 2001, ha subito un’accelerazione. 

Perché il movimento di protesta contro il G8 di Genova fu represso?

La vicenda di Genova è stata drammatica. Il governo guidato da Silvio Berlusconi decise di attuare una violentissima repressione da parte delle forze dell’ordine. Qualcosa di mai visto in una nazione occidentale in precedenza. Si trattò di una scelta politica, che non è neppure mai stata chiarita fino in fondo. 

«La sinistra e il sindacato non furono capaci di aprire un dialogo né di riconoscere i movimenti»

E la sinistra non ebbe responsabilità?

Ci fu una drammatica incapacità da parte delle forze d’opposizione, a partire dai Democratici di Sinistra e dalla Cgil. Non furono capaci di aprire un dialogo né di riconoscere i movimenti. Questa rottura da parte della politica istituzionale è alla radice dell’impoverimento della politica di oggi. E della difficoltà che i movimenti hanno avuto di mantenere una capacità di mobilitazione. 

Cosa sbagliò invece il movimento?

Un errore fu quello di non dotarsi di una struttura organizzata. Ma dopo ci furono comunque grandi manifestazioni, come quella del 2003 di opposizione alla guerra in Iraq. In quell’occasione il movimento per la pace si saldò con quello no-global. Quel giorno il New York Times titolò dicendo che era nata la seconda superpotenza globale, il movimento pacifista. Detto ciò, i movimenti non furono in grado di condizionare l’agenda politica. 

La rubrica

climax

We are the 99%

Energia, trasporti, riscaldamento globale. E gli intrecci con la finanza. Ogni settimana il punto sui cambiamenti climatici firmato da Andrea Barolini

Chi ha raccolto l’eredità di quel movimento?

A livello globale la spinta avviata dal forum sociale mondiale è stata raccolta da movimenti come Occupy Wall Street che ha reagito alla crisi del 2008. Ma anche attraverso la nascita di movimenti che hanno poi dato vita a Podemos in Spagna e a Syriza in Grecia. Però, paradossalmente, benché i movimenti avessero ragione a criticare il modello iper-finanziarizzato, quando esplode la crisi finanziaria diventa più difficile organizzarsi su base globale. Ciò anche per via del ripiegamento delle nazioni su loro stesse. Tutti si concentrarono infatti soprattutto sugli effetti della crisi sul piano interno. 

E il movimento per il clima, oggi, è figlio delle mobilitazioni di allora?

Sicuramente il movimento per il clima ha un respiro globale. Il problema è che manca ancora un’agenda condivisa per una proposta alternativa di modello economico. È ancora un movimento di sensibilizzazione, che punta giustamente a cambiare i comportamenti delle persone e incalza i governi affinché facciano di più. Ma questo “fare di più” non è all’interno di una critica al sistema nel suo complesso. Manca una comprensione più radicale dell’insostenibilità del capitalismo globale, anche in termini climatici. 

Cosa dobbiamo attenderci ora, a 20 anni di distanza?

Allora come oggi il problema è l’individuazione di un’alternativa  a livello di sistema. Al forum sociale mondiale del 2001 il sociologo ed economista americano Immanuel Wallerstein aveva ammonito: «Siamo tutti qui contro la globalizzazione neoliberista. Ma non è detto che, quando questa fallirà, ciò che verrà dopo sarà la nostra agenda di cambiamento democratico, egualitario e di giustizia». E in effetti abbiamo assistito all’ascesa dei reazionari, con Donald Trump, Jair Bolsonaro e con i movimenti di estrema destra. Occorrerà verificare anche il peso degli eventi. Ad esempio, noi da 30 anni chiediamo gli Eurobond, e solo con la pandemia i governi si sono convinti. 

La globalizzazione ha comportato anche dei vantaggi? 

Questo modello di globalizzazione ha dato vantaggi alla finanza e al 10% più ricco della popolazione. Ha dato una grande opportunità di sviluppo a Paesi che hanno occupato gli spazi di mercato creati, a partire dalla Cina. L’Europa, invece, è stata la vera grande sconfitta. I politici sono stati incapaci di capire che sarebbero usciti perdenti. La de-industrializzazione provocata dalla concorrenza cinese è stata devastante. E in più in Europa ci si è mossi nella gabbia dell’austerità. Per capire i risultati di tutto ciò basta guardare il reddito procapite: in Italia è da 20 anni che non ci sono aumenti significativi. E la maggior parte dei Paesi europei ha registrato dinamiche estremamente limitate. 

«Il neoliberismo è fallito, eppure rimane come uno zombie cercando di occupare la scena politica ed impugnare le leve di controllo»

Si affacciano però un ritorno dello Stato e un processo di de-globalizzazione.

È la questione centrale oggi. La pandemia ha reso evidente che senza lo Stato che rompe con l’austerità e interviene massicciamente a sostenere le imprese, contrariamente a quello che dice il paradigma liberista, senza il quantitative easing fatto in tutti i Paesi, senza una politica fiscale espansiva che compensi la mancanza di domanda dipesa dalla crisi ci sarebbe stato un disastro economico. Si sono fatte politiche keynesiane ed espansive. E anche industriali di difesa della capacità produttiva. Questo ha segnato la morte del progetto neoliberista. Ma allo stesso tempo il neoliberismo rimane lì. Come uno zombie che vuole continuare ad occupare la scena politica e ad impugnare le leve di controllo. Senza riconoscere che è la politica che ci ha salvati. 

Quali soluzioni servono?

Dobbiamo bloccare l’aumento delle diseguaglianze, la polarizzazione tra ricchi e poveri. Dobbiamo rovesciare la capacità delle grandi imprese di non pagare le tasse. Colpire gli oligopoli, come nel settore digitale. Dobbiamo superare la follia di una finanza che continua a far crescere le Borse mentre crolla l’economia mondiale. Affrontare tutto ciò richiede che ci sia non solo un ritorno dello Stato ma un ritorno della politica. Una politica democratica. Sono i cittadini che devono disegnare la traiettoria del futuro.