La campagna elettorale parla poco di finanza. Specie se etica

La finanza sembra scomparsa dalla campagna elettorale. Abbiamo passato in rassegna i programmi alla ricerca di proposte sul tema

lI toro simbolo della finanza statunitense © mizoula/iStockPhoto

C’è stato un periodo in cui le tematiche finanziare riuscivano a monopolizzare il dibattito pubblico. Il crollo delle Borse statunitensi nel 2008 e le sue conseguenze, in Europa sopratutto la crisi dei debiti sovrani, costrinsero il grande pubblico a familiarizzare per anni con termini e problemi fino ad allora riservati agli addetti ai lavori. Per quasi un decennio la politica italiana (e non solo) si divise su derivati, subprime, spread, euro, sostenibilità del debito pubblico, regolamentazione dei mercati finanziari.

Di finanza si parla ormai poco. Eppure dai mercati dipende la nostra quotidianità

Da quei primi anni dieci del 2000 molto è cambiato. I partiti tradizionali hanno avuto il tempo di andare in crisi e tornare sulla cresta dell’onda. Altre emergenze – prima l’aumento dei flussi migratori, poi la pandemia – hanno cambiato l’agenda. In termini politici, da allora è passata un’era. E di finanza si parla molto meno.

Eppure i temi non mancherebbero. La crisi energetica, l’ossessione di tutto il continente, è dovuta anche a manovre speculative. Un discorso simile vale per la crisi alimentare. L’andamento del mercato del grano e di altre commodities alimentari segue logiche diverse dal semplice incontro di domanda e offerta. Giochi speculativi che rischiano di affamare le aree più vulnerabili del Pianeta. 

Rimangono poi sul tavolo molte delle questioni che hanno caratterizzato il decennio appena concluso. Il Patto di Stabilità, l’insieme delle regole di bilancio stabilite dalla Commissione europea, è stato sospeso per la pandemia e non ancora ripristinato. Nel frattempo gli Stati membri hanno accumulato un debito senza precedenti. Cosa accadrà quando il Patto rientrerà in vigore? Esiste il rischio di un ritorno alla stagione dell’austerity

Domande ancora aperte. E molti partiti non sembrano pronti a fornire le loro risposte.

wall street © Lucky Photographer iStockPhoto
La sede della Borsa di Wall Street. La crisi del 2008 ebbe inizio qui © Lucky Photographer/iStockPhoto

Energia, tra price-cap ed extraprofitti

L’aumento dei costi dell’energia ha inevitabilmente trovato ampio spazio nella campagna elettorale. Già in aumento prima di febbraio, sono schizzati alle stelle con lo scoppio della guerra in Ucraina, mettendo a dura prova aziende e cittadini. Un problema particolarmente grave nel nostro Paese, e che nei prossimi mesi si esacerberà. La fonte energetica che ha subito i maggiori rialzi, il gas, è anche quella più usata in Italia. 

Molto del dibattito si è concentrato sulla ricerca di alternative agli idrocarburi russi. Nuovi rigassificatori, diversificazione delle fonti, riapertura delle centrali a carbone. Sono gli ingredienti principali che appaiono nei programmi delle forze politiche.

Meno spazio trova l’aspetto finanziario della questione. L’imposizione di un price-cap, un tetto fissato per legge al prezzo del gas, compare nei programmi di diversi partiti. Ma ben pochi sono i dettagli sulle modalità di attuazione. In mancanza di informazioni sulla dimensione di questa misura (nazionale o europea) e sulle sue coperture è difficile valutarne la serietà.

Cosa propongono i partiti per fronteggiare la crisi energetica

Il centrodestra, che si presenta con un programma unitario, parla genericamente di tetto al prezzo senza aggiungere altri elementi. Il Partito democratico, traino del centrosinistra, ha aperto all’ipotesi di un price-cap europeo in alcune occasioni pubbliche. Ma non lo ha inserito nel suo programma ufficiale.

Non si parla di tetto dei prezzi nemmeno nel programma del Movimento 5 Stelle, che però propone un Energery Recovery Fund europeo finanziato con debito comune. L’Unione nel suo insieme, nel programma di Giuseppe Conte, dovrebbe recuperare risorse sui mercati per acquistare gas. 

Più dettagliato il programma del cosiddetto Terzo Polo (quarto nei sondaggi) capitanato da Carlo Calenda. Torna il price-cap, accompagnato da tassa sugli extra-profitti e riduzione del prezzo della CO2

Il nodo del mercato ETS dei “diritti ad inquinare”

La prima misura si traduce nel prelievo di parte dei profitti extra fatti dalle grandi aziende energetiche. Le big del settore acquistano oggi buona parte della materia prima a prezzi bassi perché regolati da contratti a lungo termine. Ma vendono energia ai prezzi (alti) del mercato. Da qua l’extraprofitto che Azione e Italia Viva vogliono tassare al 50%.

La seconda misura significa indebolire uno dei meccanismi adottati dall’Unione europea per tentare di ridurre le emissioni climalteranti. Il (finora poco efficace) mercato delle quote di emissione di CO2 (Ets). Disperdere gas ad effetto serra nell’atmosfera dovrà costare meno nella proposta di Calenda. 

Niente sul tema da parte di Italexit, forza di estrema destra data ormai oltre la soglia di sbarramento da diversi sondaggi. Più attente le liste a sinistra del PD. Alleanza Verdi e Sinistra e Unione Popolare concordano su price-cap e tassa sugli extra-profitti delle compagnie energetiche. Tra le due forze solo lievi differenze. Unione Popolare, l’alleanza guidata dall’ex sindaco di Napoli De Magistris, propone un tetto al prezzo del gas stabilito a livello nazionale e una tassa del 90% sugli extraprofitti. La lista rossoverde rilancia con un 100% di prelievo.

Il ritorno del debito nel dibattito politico

La sostenibilità dei debiti sovrani è stata al centro della politica europea per anni. Le politiche di austerity, cioè di taglio della spesa pubblica, sono state giustificate proprio con la necessità di ripagare i debiti contratti dalle nazioni. 

Negli anni della pandemia il debito di tutti gli Stati europei è cresciuto significativamente. Le diverse regole comunitarie che impongono stringenti limiti alla possibilità d’indebitarsi sono momentaneamente sospese. Ma non è ancora chiaro cosa accadrà quando torneranno in vigore. E i partiti sembrano poco interessati a capirlo.

Il programma del centrodestra, tra i più stringati, si limita a suggerire una revisione del Patto di Stabilità. Che genere di revisione, però, non è chiaro. Sicuramente appaiono lontani i tempi in cui le battaglie contro i limiti alla spesa di Bruxelles erano al centro degli slogan di Lega e Fratelli d’Italia.

Il possibile scorporo degli investimenti green dal calcolo del deficit

Anche Partito Democratico e Terzo Polo, le forze da sempre più entusiasticamente europeiste, glissano sul tema. Bisogna arrivare ai 5 Stelle, terzi nei sondaggi, per qualche proposta più dettagliata. Anche la lista guidata da Giuseppe Conte parla di riforma del Patto di Stabilità. Ma a questo aggiunge lo scorporo degli investimenti verdi dal calcolo del deficit e l’emissione permanente di titoli obbligazionari europei.

La prima misura è sostenuta a livello comunitario da EuroGreens, sinistra e parte della socialdemocrazia. Significherebbe che il debito contratto dagli Stati per investimenti rivolti alla transizione ecologica verrà ignorato quando si calcola il rispetto dei limiti di bilancio europei. Di fatto un via libera ad un aumento del debito pubblico in nome della transizione verde nello spirito del Green New Deal statunitense. 

La seconda proposta è, nelle intenzioni dei 5 Stelle, la logica prosecuzione del Next Generation EU. Oggi sono i singoli Stati membri ad emettere sul mercato titoli per reperire finanziamenti. Da anni molte forze politiche da tutto il Continente chiedono che sia l’Europa nel suo insieme ad emettere titoli per poi redistribuirne i proventi tra i Paesi. Questa è anche l’idea di Giuseppe Conte.

Solo un partito chiede modificare lo statuto della BCE, eliminare i parametri di Maastricht e il pareggio di bilancio in Costituzione

Sulla stessa linea l’Alleanza Verdi e Sinistra. Ancora più in là si spinge Unione Popolare. La lista a guida De Magistris è la più netta nel chiedere un’inversione ad “U” rispetto alle politiche europee dell’ultimo decennio. UP propone l’eliminazione dei parametri di Maastricht – il trattato europeo che fissa i limiti alla spesa pubblica – e una modifica costituzionale che cancelli il vincolo del pareggio di bilancio introdotto dal governo Monti.

Non solo: si parla anche di abolizione del MES, il discusso meccanismo salva-stati per cui molto si discusse nel 2020. Il programma si concentra infine sul ruolo della BCE, la Banca Centrale Europea. Unione Popolare propone di modificarne lo statuto e, nel frattempo, chiede che l’istituto continui ad acquistare titoli di Stato dei Paesi membri che ne hanno bisogno senza richiesta e senza condizionalità. Un enorme cambio di rotta rispetto alle politiche attuali.

Fuori dal coro Italexit. La lista di Gianluigi Paragone chiede, oltre all’addio al pareggio di bilancio, l’uscita dall’Euro e la nazionalizzazione di Banca d’Italia.

Da sinistra le (poche) proposte di regolamentazione della finanza

Deregulation è una delle parole molto utilizzate nei decenni passati. indica l’allentamento delle regole per le aziende e, sopratutto, i mercati finanziari. Un fenomeno che ha colpito l’Occidente e non solo fin dagli anni Ottanta. La crisi del 2008, scatenata proprio dall’eccessiva libertà d’azione di banche e fondi d’investimento, ha messo in discussione questa dottrina. Ma alla regolamentazione dei mercati è dedicato pochissimo spazio nei programmi elettorali.

Il centrodestra non dice niente sul tema. Il Partito democratico si limita ad appoggiare la Minimum Global Tax, un’imposta globale al 15% sulle multinazionali proposta dall’OCSE. Niente anche da parte dei 5 Stelle. Il Terzo Polo di Calenda e Renzi, nelle oltre sessanta pagine di programma, parla solo di unificazione delle categorie di reddito «da capitale» e reddito «finanziario di altro tipo» a fini fiscali.

Solo Alleanza Verdi e Sinistra e Unione Popolare dedicano uno spazio relativamente ampio al tema, se non della regolamentazione, quantomeno della tassazione delle attività finanziarie. 

La coalizione di Europa Verde e Sinistra Italiana propone di raddoppiare la Minimun Global Tax di cui parlavamo sopra: dal 15% al 30%. Per impedire la fuga di aziende e capitali verso Paesi dalla tassazione più blanda si parla di due misure. Primo, coordinamento in sede europea per la fine dei paradisi fiscali comunitari (Irlanda, Lussemburgo, Malta). Secondo, obbligo di rendicontazione delle entrate per ogni azienda Paese per Paese (il cosiddetto country by country reporting).

Unione Popolare ha tre proposte in programma sul tema. L’estensione della base imponibile IRPEF per redditi da capitale e finanziari. L’oopposizione ai paradisi fiscali europei. La contrarietà a qualsiasi ipotesi di scudo fiscale – cioè di trattamenti particolarmente favorevoli per chi facesse rientrare in Italia capitali nascosti altrove.

Anche in questo campo Italexit si distingue con un’insieme di posizioni quantomeno originale. Da un lato il programma parla di lotta all’elusione fiscale, dall’altra si propone di applicare all’Italia lo stesso regime fiscale «di altri Paesi europei categorizzati come paradisi fiscali». L’idea, insomma, sembrerebbe essere quella di combattere i paradisi fiscali esteri e al contempo rendere l’Italia stessa una grande attrazione per le aziende intenzionate ad eludere…

Indirizzare i grandi capitali della finanza? Un’idea che trova poco spazio nella politica italiana

Indirizzare i grandi flussi finanziari è uno dei temi da sempre al centro dei meeting internazionali. Non c’è COP sul clima in cui non si parli di mobilitare miliardi privati per investimenti verdi e adattamento. Non c’è summit sulla biodiversità in cui non si cerchi di dirottare le attenzioni dei fondi d’investimento su iniziative che aiutino la difesa degli ecosistemi. A volte sono gli stessi operatori finanziati a dotarsi di strumenti come gli indici ESG. Si tratta di agenzie che valutano l’impatto ambientale, sociale e di governance delle corporation per indirizzare gli investitori verso le aziende più sostenibili.

Nonostante gli annunci, molti dei tentativi fatti a livello globale si sono rivelati un buco nell’acqua o semplice greenwashing. Una debolezza che non impensierisce tutta la politica italiana.

Nuovamente niente da segnalare dal programma del centrodestra. Si distingue questa volta il Partito Democratico. La formazione di Enrico Letta propone premialità per le imprese con alti punteggi ESG e abbassamento dell’IRES per chi reinveste gli utili o sposta i suoi soldi in aziende ESG. Proposte che potrebbero risentire delle problematiche legate alla stessa definzione di ESG di cui abbiamo parlato anche di recente. Altra proposta dei democratici sulla stessa linea è l’incentivo a chi investe sulle imprese impegnate nel sociale.

Beni comuni, finanza per il clima, cooperazione internazionale

Il programma più dettagliato, però, lo hanno Verdi e Sinistra. L’Alleanza chiede il raggiungimento dei 4 miliardi che l’Italia dovrebbe versare ogni anno in finanza pubblica per il clima (attualmente siamo sotto il mezzo miliardo). Metà di essi andrebbe destinato all’adattamento. Gli aiuti allo sviluppo e la cooperazione internazionale dovrebbero arrivare a contare per il 0,7% del PIL.

Il programma parla anche di «profonda riforma dell’architettura della finanza globale», pur senza scendere in dettagli, e di partnerariati col Sud globale. Anche il ruolo delle aziende pubbliche dovrebbe cambiare. Per Eni, Enel, Leonardo, Poste, Ferrovie e via discorrendo è previsto un «cambio di vision» che le porti ad occuparsi del «bene comune». Gli istituti finanziari sotto controllo statale – Cassa Depositi e Prestiti, Sace, Invitalia – dovrebbero trasformarsi in banche per il clima.

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La sede romana di ENI, una delle grandi aziende controllate dallo Stato italiano © Franco Tognarini/iStockPhoto

Più scarne le proposte di Unione Popolare, che chiede la nazionalizzazione del settore energetico e conta più sull’intervento diretto dello Stato. Italexit si limita a promettere la detassazione degli utili aziendali investiti in maniera «etica». Come l’eticità degli investimenti debba essere individuata non è per ora chiaro.

Le bolle speculative: le grandi assenti da programmi e dibattiti

Nonostante la sua importanza, la finanza rimane ai margini del dibattito pubblico. Le principali forze politiche hanno poco e nulla in agenda per regolare i mercati ed evitare bolle e meccanismi speculativi. Persino sulle grandi crisi del nostro presente si riesce ad elaborare poco. Le distorsioni del mercato sono alla base della difficoltà di accesso ad energia e cibo. Ma il primo tema è affrontato marginalmente, il secondo del tutto assente. Anche l’emergenza climatica vive di flussi finanziari diretti verso i combustibili fossili. Ma di nuovo, poco e nulla si fa per scoraggiarli. 

I temi che hanno polarizzato la nostra politica durante la crisi dei debiti sovrani – ruolo della BCE, difesa dagli attacchi speculativi, limiti di spesa – sembrano scomparsi dal dibattito. Anche la tassazione delle operazioni finanziarie non scalda gli animi della politica. L’idea di incentivare la finanza etica, poi, è praticamente fuori dai radar. Inclusa di striscio solo da alcune forze della sinistra, spesso con una certa dose di genericità.

Certo, su alcuni di questi temi si trovano proposte anche dettagliate. Ma quasi sempre da forze minori. Il programma del centrodestra, probabile vincitore di questa tornata elettorale, è sostanzialmente afono per quanto riguarda la finanza. Migliorano, ma solo di poco, quelli di Partito Democratico e Movimento 5 Stelle. Per il resto, chi ha proposte più puntuali galleggia appena sulla soglia di sbarramento o gli sta poco sopra.

Le proposte di Banca Etica per riformare la finanza

La sensazione, insomma, è che anche in queste elezioni le italiane e gli italiani rischino di subire la finanza piuttosto che indirizzarla. Anche per questo il gruppo Banca Etica ha lanciato una serie di proposte per riformare banche, mercati e non solo.

«Sulla scorta di oltre vent’anni di esperienza in cui il movimento della finanza etica italiano e internazionale hanno sviluppato modelli di business e strumenti finanziari (crediti, risparmi, investimenti, polizze assicurative, ecc.) che coniugano la ricerca dell’efficienza e del rendimento economico con la tutela dell’ambiente, il contrasto ai cambiamenti climatici, la promozione dei diritti e la lotta alle diseguaglianze, il Gruppo Banca Etica chiede alla politica di scrollarsi di dosso una certa subalternità nei confronti della finanza mainstream, e di indirizzare l’intero sistema economico tramite misure pensate per uno sviluppo collettivo più sano, equo e sostenibile. Benché negli ultimi anni si sia verificato un importante sforzo normativo, di livello europeo e nazionale, per regolamentare la cosiddetta finanza sostenibile, a oggi l’esito di tale sforzo è un quadro iper-complesso che non fissa paletti precisi, concentrato prevalentemente sugli impatti ambientali e poco su quelli sociali dei prodotti finanziari, trascurando sostanzialmente altre tematiche, come ad esempio il contrasto alla speculazione finanziaria».

Di qui, in concreto, le proposte:

  • Finanza per la transizione energetica: per incentivare il credito alle imprese con impatti ambientali e sociali positivi proponiamo di introdurre “green o social supporting factor” che riducano gli assorbimenti patrimoniali sui finanziamenti con orientamento ESG . Auspichiamo inoltre che l’Italia si spenda per chiedere all’Europa di modificare l’infelice decisione con cui ha incluso l’estrazione di gas e l’energia nucleare tra gli investimenti che si possono definire sostenibili.
  • Inclusione finanziaria per l’inclusione sociale: con la chiusura di tanti sportelli bancari su tutto il territorio, e in particolare nelle aree fragili e al Sud, aumentano le persone soggette a esclusione finanziaria. Crediamo che le banche cooperative e di territorio siano un presidio importante contro lo spopolamento delle aree fragili e contro le infiltrazioni criminali nei tessuti produttivi e sociali. Eppure la politica da anni spinge per un sistema bancario sempre più concentrato nelle mani di poche grandi società.
  • Terzo Settore: il prezioso mondo del non profit e dell’associazionismo per svilupparsi pienamente ha bisogno di nuove regole per la concessione di credito. Le banche che – come Banca Etica – vogliono dare credito alle realtà non profit non devono più essere penalizzate sul piano degli assorbimenti patrimoniali.
  • Speculazione finanziaria: come stiamo toccando con mano la speculazione finanziaria impatta enormemente sui prezzi di beni primari come il cibo e l’energia; arricchisce pochi mentre depaupera le risorse per l’economia reale e i diritti primari delle persone. La politica deve e può contrastare la speculazione finanziaria ad esempio studiando forme di tassazione sulle transazioni finanziarie (cd. ”Tobin Tax”) e introducendo limiti e regole sui derivati.
  • Paradisi fiscali: auspichiamo un sempre maggiore impegno dell’Italia nei consessi internazionali per il contrasto ai paradisi fiscali. Qualche passo avanti si è fatto con la direttiva UE e con l’accordo Ocse del 2021 che obbligano le multinazionali a dichiarare quante tasse pagano in ciascun paese in cui operano, ma – come rilevato da Oxfam – non è ancora sufficiente.