Dal petrolio dell’Artico alle sabbie bituminose: dove finiscono i nostri soldi
Con i nostri soldi, le banche finanziano alcuni tra i comparti più devastanti per il clima del settore fossile
Sabbie bituminose, fracking, perforazione dell’Artico, gas liquefatto, carbone: ogni estrazione o passaggio chiave nell’industria dei combustibili fossili ha bisogno delle banche per andare avanti. Il rapporto Banking on Climate Chaos racconta come i più grandi istituti finanziari del mondo, nonostante i proclami green e i bilanci di sostenibilità, non si stiano tirando indietro dal sostenere lo sviluppo dell’attività fossile.
Il risultato è che da quando è stato firmato l’Accordo di Parigi le 60 principali banche al mondo hanno pompato 4.600 miliardi di dollari nella crisi climatica. Solo nel 2021 sono stati 750 i miliardi, ben distribuiti tra tutti i settori più critici, i più climaticamente e ambientalmente dannosi.
Crisi climatica
Dalle grandi banche 4.600 miliardi alle fossili in sei anni
4.600 miliardi di dollari, soltanto dal 2016 ad oggi. È la cifra stratosferica concessa da 60 banche a chi sfrutta petrolio, carbone e gas
Il rapporto è una radiografia dei flussi e dei legami tra la finanza, l’estrazione e la distribuzione delle fonti di energia. Che hanno portato il 2021 a essere l’anno con l’aumento di emissioni globali di CO2 più alto di sempre.
Sabbie bituminose, una delle estrazioni più contestate
Quella di petrolio dalle sabbie bituminose (tar sands) sotto le foreste boreali dell’Alberta in Canada rappresenta una delle estrazioni più contestate e combattute del Nord America. In un certo senso si può dire che abbia plasmato l’identità dell’ambientalismo negli Stati Uniti, saldandolo con le proteste dei nativi americani.
Nonostante vittorie come il blocco dell’oleodotto Keystone XL come primo atto della presidenza Biden, soltanto 25 banche globali sulle top 60 hanno delle policy che restringono (con limiti ed eccezioni, peraltro) il finanziamento a progetti di estrazione e trasporto legati alle tar sand.
Greenwashing
Ci mancavano le sabbie bituminose sostenibili
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A differenza di Keystone XL, l’aggiornamento e ampliamento dell’oleodotto Line 3 della Enbridge è diventato operativo a ottobre. Nonostante una lunghissima battaglia politica e legale, ancora in corso ma destinata a essere sconfitta. Enbridge non avrebbe mai potuto reggere anni di incertezze operative e battaglie legali senza il supporto incondizionato della finanza. Da parte delle principali banche canadesi e anche degli istituti di credito stranieri Bank of America e HSBC.
L’opposizione ambientalista alla Line 3 non è ideologica. Su quel tracciato sono state registrate 24 gravi perdite di petrolio nel corso degli anni. Tra cui la più grande mai accaduta sulla terraferma americana, quella sulle paludi di Grand Rapids, nel Minnesota, e nel fiume Prairie, un affluente del Mississippi. Per la finanza è comunque un investimento sostenibile. Nel 2021 sono arrivati 23,29 miliardi di dollari dalle banche alle 30 aziende di estrazione e alle 6 di trasporto di petrolio da sabbie bituminose.
Lo sfruttamento dell’Artico
Di cosa parliamo quando parliamo di Artico? Il rapporto racconta di come le lotte ambientaliste e indigene (soprattutto dei nativi dell’Alaska) abbiano spinto 39 banche sulle top 60 ad avere policy specifiche per limitare l’estrazione di oil&gas nell’Artico.
Il problema sta proprio nella definizione di Artico scelta, che è piuttosto ristretta. Artico per le banche non è tutta la regione geografica (come definita dall’Arctic Monitoring and Assessment Programme) ma solo quella a nord del Circolo Polare Artico. E questo esclude ben 168 progetti di estrazione.
Per Banking of Climate Chaos UniCredit è la stata terza banca per finanziamenti di progetti fossili in Artico nel periodo successivo all’Accordo di Parigi. Ma nella nuova strategia ESG l’istituto italiano ha deciso di interrompere i finanziamenti ai progetti oil&gas nella regione. Ai primi due posti del caos fossile artico ci sono BNP Paribas e JP Morgan, nella top 20 c’è un’altra italiana, Intesa Sanpaolo.
Estrazioni offshore
Il finanziamento dell’estrazione offshore di petrolio e gas è uno dei settori nei quali le banche sono più indietro nell’attuare politiche di sostenibilità credibili. Solo 8 su 60 ne hanno una di un qualche valore. E quelle in vigore riguardano comunque solo l’estrazione ultradeepwater, a profondità superiori a duemila metri.
Non sono però le uniche pericolose per gli ecosistemi. Il disastro della Deepwater Horizon causato da BP nel 2010, uno dei più catastrofici della storia, avvenne a una profondità di 1.500 metri. Le due banche più esposte nell’offshore sono ancora una volta BNP Paribas e JP Morgan.
Fracking, una delle pratiche ambientalmente più nocive
Il fracking, la fratturazione idraulica delle rocce per ottenere gas, è una delle pratiche ambientalmente più nocive che ci siano. È anche la tecnica che ha permesso agli Stati Uniti di tornare leader globale degli idrocarburi. Ed è questo il motivo per cui tra le 21 banche che hanno buone policy per non finanziare il settore non ce n’è nessuna statunitense. Dall’Accordo di Parigi in poi sono arrivati 464 miliardi di dollari a progetti legati al fracking. In testa JP Morgan, Wells Fargo, Citi e Bank of America.
Dopo la guerra in Ucraina, il gas da fracking diventerà uno dei protagonisti del nostro mix energetico. Ma dei suoi danni si parla ancora troppo poco. Uno degli effetti ecologici peggiori dello shale gas estratto col fracking è la contaminazione delle falde acquifere. L’acqua usata per fratturare le rocce viene infatti potenziata con centinaia di diversi additivi chimici prima del processo. Durante l’estrazione c’è un secondo livello di contaminazione, perché l’acqua entra a contatto col gas e i metalli pesanti contenuti al suo interno. Una buona parte di quel liquido non viene smaltito ma torna in superficie, dove contamina i corsi d’acqua, o raggiunge le falde sotterranee, inquinando le riserve idriche.
Secondo un rapporto di Greenpeace, il fracking ha contaminato le falde in Pennsylvania, Colorado, Ohio e Wyoming. In sessanta siti negli stati di Pennsylvania e New York l’acqua contiene metano. Uno sversamento in West Virginia ha ucciso una foresta e causato la morte di bestiame e animali domestici nel raggio di chilometri.
Una falsa soluzione
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Gas liquefatto e carbone
LNG è la formula del momento in Europa. Gas liquefatto da importare attraverso navi gasiere e da rigassificare a destinazione, per rimpiazzare la dipendenza da gas russo con la dipendenza da gas nordamericano. I contratti e costi per le infrastrutture di trasporto e rigassificazione rischiano di legarci a questa “fonte di transizione” per decenni. Ben oltre i limiti imposti dalla transizione stessa.
In Asia sono in costruzione vari terminal di importazione. Quindi la concorrenza per l’LNG rischia di diventare spietata, ora che l’Europa ne ha così bisogno ed è disposta a pagare qualsiasi prezzo per averlo. Questa crescita è stata prevedibilmente incoraggiata da tutte le grandi banche. Molte tra queste sono nordamericane: Morgan Stanley, la solita JP Morgan, Bank of America, Goldman Sachs.
Infine, il carbone: 48 banche sulle 60 più grandi hanno una policy di esclusione di finanziamenti alla più sporca delle fonti di energia. Ma solo 15 hanno un divieto esplicito di sostenerne lo sviluppo. Non sorprendentemente, le più impegnate nella corsa al carbone sono cinesi, ai primi posti per finanziamenti sia per l’estrazione mineraria che per le centrali a carbone.
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