Residenze anziani, il business parla sempre più privato (e il non profit soffre)
La domanda di Rsa esplode, ma le realtà del terzo settore soffrono le ridotte dimensioni e la concorrenza di grandi operatori che investono miliardi
In Italia nel 2017 le persone che, a causa di problemi di salute, soffrivano di gravi limitazioni che impedivano loro di svolgere attività abituali erano circa 3,1 milioni, il 5,2% della popolazione. Gli anziani erano i più colpiti: quasi 1,5 milioni di ultra 75enni, oltre un quinto delle persone in quella fascia di età erano disabili e 990mila tra loro, sei su 10, donne. I disabili gravi hanno un’età media di 67,5 anni rispetto ai 39,3 della media del Paese e sono spesso poveri. Questa la fotografia del problema realizzata l’anno scorso dall’Istat nel rapporto “Conoscere il mondo della disabilità: persone, relazioni e istituzioni”, curato da Maurizio Franzini e Alessandro Solipaca e presentato a Roma il 3 dicembre scorso.
Il Censis ha aggiornato il dato: nel 2018 in Italia le persone non autosufficienti erano 3,51 milioni, in crescita del 25% in dieci anni, delle quali l’80,8% ha più di 65 anni. Non è autosufficiente il 20,8% degli anziani.
23 miliardi di prestazioni assistenziali
L’onere della non autosufficienza ricade direttamente sulle famiglie. Le prestazioni assistenziali nel 2017 sono state circa 4,3 milioni per una spesa di 23 miliardi, mentre le pensioni sono state 1,4 milioni per un valore di 14 miliardi. I trasferimenti monetari, pari a oltre 37,2 miliardi nel 2017, assorbono la maggior parte della spesa per le persone con disabilità, riducono il rischio di povertà delle famiglie ma non risolvono il problema della deprivazione materiale. Per il 33,6% delle persone con un componente non autosufficiente in famiglia le spese di welfare pesano molto sul bilancio familiare, contro il 22,4% medio della popolazione.
La fotografia del settore e le dinamiche evolutive
Da una quindicina di anni l’Europa e il Canada hanno seguito gli Usa nella privatizzazione delle case per anziani. I Governi hanno incoraggiato gli operatori privati attraverso i meccanismi di accreditamento. In Italia a fine 2017 nelle Rsa e Rsd (residenze per disabili) operavano 1.271 imprese, 702 delle quali private e profit e 569 non profit, ma i quattro quinti del settore sono gestiti da istituzioni pubbliche e Onlus.
L’offerta dei privati profit però è in costante crescita e ha colmato in parte l’uscita del privato non profit, i cui operatori generalmente di dimensioni modeste. Secondo una ricerca di Pio De Gregorio di Ubi Banca, in Italia il settore delle residenze sociosanitarie assistenziali (Rsa) per anziani sta vivendo un vero boom trainato dalla domanda. Nel 2035 gli anziani non autosufficienti in Italia saranno circa 560mila e la domanda di posti letto nelle residenze sanitarie assistenziali (Rsa) crescerà tra le 206mila e le 341mila unità che richiederanno un investimento complessivo tra i 14,4 e i 23,8 miliardi.
Il settore fa gola perché le Rsa sono un investimento “assicurato”, anticiclico rispetto all’economia e assai redditizio: nelle strutture private al crescere delle dimensioni cresce la redditività. Ecco perché, anche se a oggi valgono solo un quinto dell’offerta complessiva, i gruppi privati stanno investendo grandi somme sia per creare nuove strutture che per acquistare concorrenti. Ai privati fa sponda la finanza: dal 2006, 51 fondi immobiliari che dal 2006 hanno investito un miliardo nelle strutture, dai cui affitti ottengono rendimenti medi tra il 6 e il 7,5% lordo annuo.
Business della salute
Sanità, il fronte caldo del terzo settore
Il settore privato, nel 2018 ha fattutato quasi 24 miliardi. I soggetti profit dilagano. Per il non profit, che occupa 812mila persone, nodo finanziamenti a medio-lungo termine
Rsa, 86% è gestito da privati profit e non profit
Le rette delle strutture comprendono due parti, la quota sanitaria e quella alberghiera. La quota sanitaria a copertura pubblica, che “pesa” tra il 30 e il 50% della retta totale, varia a livello regionale e vale dai 29 ai 64 euro al giorno. La quota alberghiera, coperta solo in parte dal pubblico, in alcune Regioni è libera mentre in altre ha un tetto. Tra il 2011 e il 2016 le rette sono cresciute in media del 2% l’anno.
Secondo l’Osservatorio nazionale sulle strutture residenziali per anziani presentato il 23 ottobre scorso alla Camera dei Deputati dallo Spi, il sindacato dei pensionati della Cgil, su 4mila strutture analizzate in tutta Italia solo il 14% sono pubbliche e gestite direttamente da Comuni, associazioni o consorzi a essi legati, aziende sanitarie o da aziende pubbliche di servizi alla persona (Asp). Il restante 86% è invece gestito da privati profit o non profit quali enti religiosi, Onlus, fondazioni e cooperative.
In allegato pubblichiamo la relazione dell’osservatorio Spi Cgil Lombardia sulle rette Rsa anno 2017…. https://t.co/InGjuEToOS
— spicgillombardia (@spilombardia) September 11, 2017
Nel pubblico retta media di 1.800 euro al mese, nel privato oltre i 2.500
Nelle strutture pubbliche le rette massime nel 46% dei casi non superano i 60 euro al giorno (circa 1.800 euro al mese). In quelle private invece la spesa è più elevata e può arrivare (nel 39% dei casi) oltre gli 80 euro giornalieri (circa 2.500 euro al mese). Tra quelle private quelle più costose ci sono quelle profit (il 54% ha rette superiori agli 80 euro giornalieri), seguite da quelle gestite da cooperative, dalle Fondazioni e dagli enti religiosi.
Più basse le rette nelle strutture gestite da OnlusSoggetti non profit riconosciuti in Italia dal Decreto Legislativo n. 460 del 1997 che perseguono esclusivamente la solidarietà sociale svolgendo attività a favore di terziApprofondisci e da associazioni. Le rette massime riguardano principalmente le strutture che si occupano di persone non autosufficienti e le strutture di grande dimensione, basse solo nel 17% dei casi mentre nel 45% superano gli 80 euro giornalieri.
Trasparenza, maglia nera agli enti religiosi
Oltre l’80% delle Rsa sono di medio-piccole dimensioni e non superano i 100 posti letto. Il 74% ospita anziani totalmente o parzialmente non autosufficienti. Solo il 19% delle Rsa ha oltre 100 posti letto, quasi totalmente quelle profit. Non tutte le tipologie di Rsa forniscono informazioni ai propri assistiti o alle loro famiglie sui servizi erogati. Solo il 38% pubblica la Carta dei servizi, dato che sale all’86% in quelle pubbliche.
Nel privato la maglia nera della trasparenza va agli enti religiosi: solo il 55% di quelli che gestiscono Rsa fornisce informazioni a fronte del 68% delle cooperative, il 69% delle aziende private di mercato, il 76% delle Onlus e il 74% delle Fondazioni.
Montemurro (Ires Morosini): presenza privati opaca e costosa
Secondo Francesco Montemurro, direttore dell’Istituto di ricerche economie e sociali Lucia Morosini della Cgil piemontese e autore di ricerche sulla residenzialità degli anziani per lo Spi-Cgil, «la presenza dei privati nel settore delle Rsa resta costosa e poco trasparente.
Nel settore è in corso un forte fenomeno di concentrazione che ruota intorno a pochi gruppi, tra i quali Kos del gruppo Cir – De Benedetti con il marchio Anni Azzurri, Tosinvest degli Angelucci con le residenze San Raffaele, Sereni Orizzonti della famiglia friulana Blasoni. Ma dalla Francia sono già arrivati i giganti quotati Korian e Orpea, i primi due operatori mondiali con un fatturato combinato di 7,35 miliardi nel 2019, quasi 400 milioni di utili netti e patrimonio immobiliare aggregato di oltre 8 miliardi.
Sono forti le relazioni con il mondo della politica, perché per funzionare le imprese devono superare un processo autorizzativo. La spinta dei privati è verso strutture sempre più grandi e superiori a una soglia minima di 120 posti letto. Invece altri Paesi vanno verso forme di residenzialità differenti, con appartamenti protetti e strutture più piccole dove si privilegia la qualità dei servizi e l’alto livello di umanità.
Uno degli elementi costanti di opacità è la forma contrattuale dei dipendenti. Un altro è la diffusione delle “case famiglia” che non passano attraverso percorsi autorizzativi, non offrono garanzie qualitative e rappresentano un mondo sommerso dal quale purtroppo spesso emergono abusi», conclude Montemurro.
Secondo l'Istituto Superiore di Sanità, negli ultimi 2 mesi e mezzo il 40% dei morti nelle residenze per anziani sarebbe dovuto al #covid19. L' inchiesta principale su questo fronte è quella sulle rsa di #Milano e provincia pic.twitter.com/W0xMLqjSDo
— Tg2 (@tg2rai) April 18, 2020
Il ruolo della politica, il sistema delle “3 A” e le richieste dei privati
La politica nazionale e regionale ha in mano le chiavi del mercato delle Rsa e della sanità privata che si muovono lungo un sistema regolamentare noto come “le tre A”: autorizzazione (alla costruzione e all’esercizio), accreditamento al Sistema sanitario nazionale, accordi con le Regioni.
Lo Stato disciplina i requisiti delle strutture, il loro accreditamento al Ssn ed eroga le risorse alle Rsa attraverso il Fondo nazionale per le politiche sociali. Le Regioni regolano i requisiti di dettaglio delle Rsa e hanno in mano l’asso pigliatutto, la possibilità di dare o negare l’accreditamento di erogatore di prestazioni per conto del Ssn necessario per addebitare allo Stato la quota parte di prestazioni convenzionate erogate.
Ci sono poi gli accordi contrattuali tra singole Rsa e Regioni o Asl sulle prestazioni che le residenze per anziani devono assicurare per fatturarle al Ssn. Ecco perché gli operatori privati delle Rsa hanno dato tre missioni ai loro lobbisti. Vogliono dal governo la riqualificazione del fondo per l’indennità di accompagnamento, che vale circa 14 miliardi dei quali però solo cinque vanno all’assistenza organizzata. A Stato e Regioni chiedono la stabilizzazione delle risorse per le disabilità gravi delle Aziende sanitarie e l’introduzione di vincoli pluriennali per poterle “girare” alle banche e facilitare i propri investimenti.
Infine, premono sul Parlamento perché emani leggi per diffondere la copertura assicurativa del rischio di non autosufficienza grazie all’introduzione di forti incentivi fiscali.
Il rischio delle strutture deregolamentate, la Cgil chiede una legge
Un fenomeno fortemente in crescita è quello delle case famiglia e delle strutture a carattere comunitario. Nel primo caso possono ospitare fino a sei persone mentre nel secondo fino a 20. Per avviarle basta una semplice dichiarazione (la Dia) e non c’è bisogno di una autorizzazione preventiva al funzionamento.
In questo modo anche persone senza competenze e conoscenza dell’assistenza socio-sanitaria agli anziani possono aprire e gestire una struttura residenziale. Le tariffe sono fuori controllo. La competizione fra case famiglia può infatti generare fenomeni di bassa tariffazione a cui però corrisponde l’erogazione di servizi di bassa qualità. Le famiglie chiedono con forza sostegni economici: il 75,6% degli italiani è favorevole ad aumentare le agevolazioni fiscali per le famiglie che assumono badanti. Ecco perché lo Spi-Cgil chiede a governo e parlamento una legge sulla non autosufficienza e sull’assistenza socio-sanitaria agli anziani.
In Manovra abbiamo aumentato le risorse del Fondo per la disabilità e la non autosufficienza di altri 30 milioni nel 2020 portando così la sua dotazione a 80 milioni l’anno prossimo, 200 nel 2021 e 300 annui a decorrere dal 2022. Presto una legge quadro sulla non autosufficienza. pic.twitter.com/OP211rONnL
— Nunzia Catalfo (@CatalfoNunzia) December 10, 2019
Le nuove forme di residenzialità premiano i redditi medio-alti
Intanto però avanzano nuove forme di residenzialità della terza età. Oltre alle Rsa, esistono forme socio-assistenziali come il senior housing o living, ovvero strutture multi-residenza, con unità abitative autonome che usufruiscono però di un sistema organizzato di servizi comuni. Questi possono includere servizi per pasti, raduni, attività ricreative e qualche forma di assistenza sanitaria o di assistenza domiciliare.
Rispetto alle classiche case di riposo, le residenze inserite in queste “retirement communities” godono di maggiore autonomia pur conservando un alto livello di servizi dedicati. Sono disponibili sia in affitto che in vendita. Le tipologie più diffuse di questa forma di residenza sono gli appartamenti, anche se all’estero sono numerose le ville e le case unifamiliari indipendenti. Spesso sono localizzate nelle zone centrali di capoluoghi di regione o provincia. L’unità abitativa prevalente è il bilocale di circa 50-60 metri quadrati.
Le residenze devono offrire sia servizi di base (reception 24 ore al giorno, spazi comuni come bar, sala lettura e palestra) e opzionali (animazione, servizi di traporto e cura della casa e della persona). Il reddito medio degli utenti di queste strutture è stimato tra i 20 e i 30mila euro l’anno.