Carbone, gas e petrolio ancora invadono i portafogli degli asset manager
Quattro Ong hanno esaminato le politiche sul clima dei 30 maggiori asset manager europei e statunitensi. Il risultato è una sonora bocciatura
Immaginiamo una classe di un liceo in cui il più bravo prende 6 e mezzo nel compito in classe. È all’incirca questo il risultato dell’analisi delle politiche sul clima dei trenta maggiori asset manager europei e statunitensi (The asset managers fueling climate chaos), pubblicata dalle organizzazioni non governative Reclaim Finance, urgewald, ReCommon e The Sunrise Project. «Il settore dell’asset management (i gestori del risparmio, ndr) sta cambiando le sue pratiche di investimento per allinearle alla scienza del clima, riducendo gli investimenti nell’espansione del carbone, del petrolio o del gas? Sfortunatamente, la risposta è un ‘no’ secco», riassume Lara Cuvelier, attivista di Reclaim Finance.
30 asset manager sotto la lente delle organizzazioni non governative
Le quattro Ong hanno selezionato trenta asset manager, 25 europei e 5 statunitensi: ciascuno di essi ha almeno 300 miliardi di dollari di asset in gestione. Sommandoli tutti, si arriva a un totale di 42.500 miliardi di dollari a dicembre 2021, il 15% in più rispetto all’anno precedente; 17mila miliardi sono gestiti in modo passivo, cioè replicando un indice di riferimento invece di selezionare i titoli. Mentre la prima edizione di questo studio si era concentrata sul carbone, quest’anno il focus si è allargato a tutti i combustibili fossili. L’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), infatti, ha messo nero su bianco che non ha più senso avviare progetti per la loro estrazione, se l’intento è quello di azzerare le emissioni nette di gas serra entro il 2050.
Ancora troppi combustibili fossili nei portafogli
Se messi a confronto con ciò che affermano l’IEA e gli scienziati, i numeri appaiono anacronistici. Nei portafogli di questi trenta asset manager ci sono 82,5 miliardi di dollari di titoli di aziende tuttora impegnate nell’espansione del carbone, tra cui la compagnia mineraria svizzera Glencore (10 miliardi) e il gruppo giapponese Mitsubishi (3 miliardi).
Non è finita qui. Stando ai dati di marzo 2022, gli asset manager detengono titoli di 12 grandi compagnie con massicci piani di espansione della produzione di gas e petrolio, tra cui Gazprom, Saudi Aramco, BP, Exxon, Shell, TotalEnergies e Chevron. Le cifre in questo caso sono ancora più sconcertanti: 468 miliardi di dollari, di cui 130 solo in azioni e obbligazioni dell’americana Exxon. Rispetto ai loro omologhi europei, gli operatori statunitensi sono molto più esposti: in cima alla lista infatti troviamo BlackRock, Vanguard e State Street Global Advisors, rispettivamente con 133, 129 e 83 miliardi.
L’«ipocrisia climatica» degli asset manager
Questi dati suonano paradossali se si considera che ben 25 società su 30 si sono unite alla Net Zero Asset Manager Initiative (NZAM), promettendo di dimazzare le emissioni entro il 2030, per poi raggiungere le zero emissioni nette di gas a effetto serra su tutti gli asset gestiti entro il 2050. 17 hanno adottato una policy sul carbone, 12 su gas e petrolio. Policy che però sono piene zeppe di clausole ed eccezioni e non si applicano mai agli asset gestiti in modo passivo. A tale proposito, le ONG autrici del report parlano apertamente di «ipocrisia climatica».
Banche fossili
Dalle grandi banche 4.600 miliardi alle fossili in sei anni
4.600 miliardi di dollari, soltanto dal 2016 ad oggi. È la cifra stratosferica concessa da 60 banche a chi sfrutta petrolio, carbone e gas
L’engagement? «Una grande distrazione»
Certo, gli operatori potrebbero esercitare il loro potere per incidere positivamente sulle scelte strategiche delle aziende di cui detengono i titoli. In una parola, fare engagement. Sulle 25 che lo hanno promesso, però, nessuna ha mai chiesto di diminuire la produzione di combustibili fossili né di fermare i nuovi progetti.
Un caso tra tutti è quello di Glencore, intenzionata a produrre carbone anche oltre il 2050, incrementando di 45 milioni di tonnellate la sua capacità estrattiva in Australia e Sudafrica. Il suo primo piano triennale di transizione climatica, pubblicato nel 2020, ha incassato il sì del 94% degli azionisti. Incluso Amundi, che continua a detenere i suoi titoli nei suoi fondi a gestione passiva, pur avendoli esclusi da quelli a gestione attiva per palese incompatibilità con le proprie policy sul carbone.
«Questo conferma che la contrapposizione tra divestment ed engagement è una grande distrazione», commenta Lara Cuvelier di Reclaim Finance. Oltre a non fare engagement, i gestori patrimoniali «inviano il messaggio opposto, perché continuano a comprare titoli delle compagnie fossili».
Due promossi su 30 in materia di clima
Il report si conclude con una valutazione sintetica delle scelte in materia di clima fatte dai 30 asset manager esaminati, espressa in una scala che va da zero a 30. Considerato che la soglia della sufficienza è stata fissata a 15, i promossi sono soltanto due: Axa Investment Managers e Natixis IM – Ostrum, a pari merito con 17,3 punti. Entrambi francesi, così come il terzo e il quarto classificato, Amundi (13,7) e BNP Paribas AM (11).
BlackRock, il primo a sfondare il tetto dei 10mila miliardi di dollari di asset in gestione, si deve accontentare di un deludente punteggio di 4,5. Secondo Lara Cuvulier, il maggiore fondo d’investimento al mondo «incarna più di ogni altro l’ipocrisia che caratterizza troppi asset manager: pur essendo il più grande membro della Net Zero Asset Manager Initiative, investe tuttora in Glencore, l’undicesimo produttore di carbone del mondo, con un forte approccio espansionista».