Biodiversità e clima, le compagnie assicurative ancora impreparate
Le compagnie assicurative stanno facendo la loro parte per biodiversità, clima e i diritti umani? Le critiche della ong ShareAction
Che il nostro Pianeta sia esposto a enormi sfide climatiche e sociali, ormai, è sotto gli occhi di tutti. Le compagnie assicurative sono in una posizione delicatissima – anzi, determinante – perché hanno proprio il compito di valutare e gestire questi rischi; o, ancora meglio, ridurli. La domanda è lecita: ne sono consapevoli? E stanno facendo abbastanza?
Tra il dire e il fare c’è un abisso
A giudicare dalle iniziative avviate negli ultimi anni per portare i temi ambientali e sociali all’interno della loro governance, si potrebbe pensare di sì. L’Onu ha lanciato i Principles for Sustainable Insurance, a cui hanno aderito decine di grandi nomi; ci sono diverse compagnie assicurative anche tra i circa quaranta investitori istituzionali che hanno promesso di azzerare le emissioni nette connesse ai loro portafogli entro il 2050; quelle che si sono unite a ClimateWise, invece, hanno volutamente sottoposto le proprie policy sul clima a una valutazione indipendente.
Fin qui gli impegni istituzionali, ammirevoli. Se però passiamo in rassegna il comportamento reale delle compagnie, emergono lacune macroscopiche. L’ha fatto ShareAction, organizzazione non governativa specializzata in investimenti responsabili, con un report in cui dà i voti alle settanta maggiori compagnie assicurative globali. Quattro le materie: investimenti responsabili, cambiamenti climatici e – per la prima volta – biodiversità e diritti umani.
Metà delle compagnie assicurative bocciata senza appello
I punteggi finali derivano in parte dai questionari sottoposti alle società, in parte dai dati pubblici ricavati dai ricercatori. Sorprende il fatto che le assicurazioni, esperte di rischi per definizione, siano ancora incapaci di gestire in modo sufficientemente solido rischi sistemici come i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità. 32 su 70 (cioè quasi la metà del campione) ricevono un’impietosa “E”, la valutazione più bassa; e di questo gruppo fanno parte anche nomi di tutto rispetto come American International Group (AIG), già salvata col denaro dei contribuenti statunitensi dopo la crisi dei mutui subprime, e il gruppo cinese Ping An Insurance, il più grande al mondo con 1.181 miliardi di dollari di asset. Altre 12 si devono accontentare di una “D”; leggermente meglio, ma ancora lontana dalla sufficienza.
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«Questo è preoccupante per gli azionisti delle compagnie assicurative che si aspettano che queste ultime gestiscano in modo appropriato i rischi ESG (ambientali, sociali e di governance) e tengano conto del proprio impatto sulle persone e sul Pianeta. Ci sono poche prove che suggeriscano che il comparto assicurativo nel suo insieme stia soddisfacendo questa aspettativa finora, il che può avere conseguenze a catena sull’economia e sui portafogli degli investitori nel loro complesso», si legge nelle pagine del report. Manco a dirlo, è preoccupante anche per i clienti che avrebbero tutto il diritto a essere adeguatamente tutelati.
Il report valuta innanzitutto la governance, dove si evidenziano i punteggi più alti. Nonostante ciò, i consigli di amministrazione di circa metà delle compagnie non si occupano di temi ESG e appena il 19% delle società ha stabilito obiettivi numerici legati agli investimenti e alle assicurazioni responsabili. Dopodiché lo studio procede nella disamina delle singole aree tematiche; ed è lì che scattano le note dolenti. La più solida è quella del clima, visto che il 56% delle compagnie ha elaborato una policy di investimenti ad hoc e il 43% ha limitato gli investimenti nel carbone. Di contro, appena il 30% ha adottato una policy sui cambiamenti climatici legata alle attività assicurative in senso stretto.
Sulla biodiversità c’è ancora tanto da lavorare. Troppo. Prima ancora della pandemia, in cui la distruzione degli ecosistemi ha giocato un ruolo fondamentale, l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) aveva già messo bene in chiaro quanto la perdita di biodiversità fosse uno dei maggiori rischi globali per la società, con una stima di 4-20mila miliardi di dollari in servizi ecosistemici andati in fumo ogni anno tra il 1997 e il 2011. Eppure, le compagnie assicurative sembrano ignorare l’argomento. Nessuna – nessuna! – ha pubblicato una strategia volta a misurare e gestire gli impatti sulla natura. Nessuna ha obiettivi sulla tutela della biodiversità. Soltanto tre hanno in programma di pubblicare una policy di investimenti legata alla biodiversità nell’arco dei prossimi 12 mesi, nessuna ha intenzione di fare lo stesso in merito alle attività assicurative.
L’Europa dimostra che le regole funzionano
Questo quadro, di per sé piuttosto desolante, riserva però una buona notizia per noi europei. Anche se nessuna compagnia si aggiudica il massimo dei voti (AAA e AA), le uniche A spettano a cinque società del Vecchio Continente: Axa, Allianz, Aviva, Legal & General e Aegon. Non va male nemmeno all’unica italiana, Generali, che riesce a strappare una B.
Sembra che il merito sia soprattutto della forte spinta da parte dei regolatori, che si sostanzia per esempio nella tassonomia europea per la finanza sostenibile e nella richiesta di una trasparenza sempre più spiccata. Secondo ShareAction, questi dati dimostrano che non ci si può aspettare grandi progressi se si lascia semplicemente che il mercato si regoli da sé. L’intervento attivo della politica, al contrario, ha il potere di fare la differenza.