I pensionati svedesi non si fermano: al bando altri giganti del fossile

Il fondo pensione svedese AP7 esclude altre corporation "sporche" dai suoi investimenti. Dopo Repsol per i suoi progetti in Amazzonia tocca a Exxon e Gazprom

Matteo Cavallito
© Brorsson/Wikimedia Commons
Matteo Cavallito
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Cannabis, armi nucleari e ovviamente fossile. Sono questi i settori operativi delle sette compagnie escluse di recente dal Sjunde AP-fonden AP7, uno dei cosiddetti “buffer funds” (fondi cuscinetto) della previdenza pubblica svedese che dal 2007 si sono dotati di un Comitato Etico. A motivare la scelta il mancato rispetto degli standard previsti in tema di diritti umani, corruzione e ambiente.

La messa al bando è in linea con la tradizione locale ben rappresentata dall’omologo AP4 che a febbraio aveva disinvestito 285 milioni di euro dal business dell’atomo e dal comparto petrolifero delle sabbie bituminose, uno dei più controversi del mondo.

Cannabis, nucleare, fossile

AP7, che gestisce un portafoglio da 46 miliardi di euro, aggiorna la lista nera delle compagnie escluse – ad oggi sono 71 – due volte l’anno. All’elenco si sono così aggiunte nel mese di giugno Aurora Cannabis e Canopy Growth Corp Inc, due pezzi grossi del nascente business della canapa legale. Le due corporation canadesi fatturano insieme circa 22 miliardi di dollari e paiono destinate a crescere in linea con l’espansione del loro settore. Ma l’erba legale a scopo ricreativo è considerata incompatibile con i principi etici del fondo.

Tra i nuovi esclusi un’altra canadese, la società di gestione Brookfield Asset Management Inc, coinvolta nel comparto delle armi nucleari, oltre alla coreana POSCO e la sua sussidiaria Posco International Corp, accusate di violare I diritti dei lavoratori in Turchia. Ma a spiccare sono soprattutto le esclusioni nel settore fossile che riguardano la russa Rosneft e l’americana Evergy di Kansas City, Missouri.

La caduta degli dei: da Gazprom a Exxon

L’abbandono degli investimenti segue infatti il criterio adottato nel 2017 quando AP7 divenne il primo investitore ad adottare la compatibilità del business con gli obiettivi fissati dagli accordi sulla lotta al cambiamento climatico come linea guida per la gestione del suo portafoglio.

A finire sotto la mannaia svedese, allora, furono colossi come la russa Gazprom, impegnata nelle contestate trivellazioni artiche, e l’americana Exxon, accusata di aver fatto attività di lobbying contro le politiche a tutela del clima. All’elenco si aggiungevano le statunitensi Entergy, Southern Corp, Westar (poi riammessa) e Peabody, una delle maggiori corporation globali del carbone.

Colossi dell’esplorazione

Exxon e Gazprom, in particolare, hanno attirato da tempo l’attenzione degli osservatori più critici. Secondo una recente indagine della Ong Global Witness le due società si collocherebbero rispettivamente al primo e al terzo posto della classifica dei maggiori investimenti globali nella corsa all’esplorazione di nuovi giacimenti.

Nel prossimo decennio, sostiene la ricerca, Exxon dovrebbe investire in questo tipo di attività 167 miliardi di dollari (149 solo nei giacimenti petroliferi) contro i 132 della collega russa Gazprom (al secondo posto c’è Shell con 149 miliardi).

In definitiva, le prime cinque corporation in graduatoria (completano il quintetto la francese Total e la britannica BP) dovrebbero spendere da sole oltre mezzo trilione di dollari per finanziare livelli di produzione giudicati eccessivi rispetto ai limiti fissati dagli obiettivi di tutela del clima.

Il caso di Repsol in Amazzonia

Nell’elenco dei colossi del fossile esclusi c’è anche la spagnola Repsol. A motivarne la messa al bando sono state le controverse operazioni condotte in Perù dove la corporation è ormai presente da diversi anni. Nel 2010 il governo di Lima aveva autorizzato la costruzione da parte di Repsol di ben 450 chilometri di corridoi all’interno della foresta amazzonica e 152 eliporti, due iniziative che secondo i critici avrebbero avuto un impatto tremendo sull’ambiente e sulle popolazioni indigene costituite presumibilmente da tribù che non avevano mai avuto contatti con altri esseri umani.

Repsol ha successivamente risposto alle accuse negando – dopo aver affidato i controlli a un ente esterno – la presenza di comunità “incontattate” nell’area. In seguito il quotidiano britannico Guardian ha reiterato le critiche alla multinazionale del fossile denunciando la presenza sul territorio di «popoli indigeni che vivono in isolamento volontario e che sono estremamente vulnerabili a ogni genere di contatto con i forestieri». A nulla erano valsi in precedenza gli appelli lanciati dalla associazione per i diritti degli indigeni AIDESEP (Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana) alla IACHR, la Commissione Interamericana dei diritti dell’uomo.