Attenzione a elogiarlo: il Green Plan farà rimpiangere il Piano Juncker
Il Piano Von Der Leyen ha tratti molto pericolosi: i 1000 miliardi per l'ambiente non vengono dal bilancio europeo. Si punta tutto sull'intervento della finanza
L’Unione europea rimane un’istituzione economica estremamente anomala e incompleta. Sebbene sia un’area con le maggiori potenzialità di crescita (raggiunge gli USA e supera la Cina se consideriamo la ripartizione del PIL mondiale), le policy adottate a partire dal Trattato di Maastricht sono diventate “stupide” e pro-cicliche. L’effetto è quello di una dinamica del reddito aggregato significativamente più bassa, sia rispetto a quello mondiale, sia rispetto a quello degli USA. Un esito tutt’altro che soddisfacente.
Infatti, il vantaggio di un’area e una moneta unica omogenea, da non trascurare da un punto di vista economico, ha lasciato il posto alla peggiore performance economica tra le principali economie mondiali. Sebbene tra il 2008 e il 2011 il sistema economico internazionale sia stato coinvolto dalla più lunga e profonda recessione che la storia economica mondiale abbia mai sperimentato, attutita solo da politiche pubbliche nazionali, l’Europa non ha agganciato e intercettato una crescita del PIL coerente rispetto alla popolazione disponibile e al livello di spesa pubblica. Si tratta di una riflessione che la nuova presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen dovrà tenere a mente.
Il confronto internazionale dei principali aggregati economici è un buon metodo per delineare delle politiche coerenti. Proviamo a declinare gli obiettivi che la nuova presidente intende perseguire e misuriamoli con i vincoli di crescita manifestati con le altre aree economiche.
Quale verità dietro le promesse di Ursula?
La politica economica e sociale, con l’insediamento della nuova Commissione, potrebbe invertire il trend di impoverimento dell’Unione europea?
L’agenda delineata da Von der Leyen, in realtà, ricalca le missioni della precedente Commissione. In molti siamo rimasti colpiti dall’idea di «investimenti per mille miliardi di euro nel prossimo decennio disseminati in tutta l’UE» a favore dell’ambiente. Ma la realtà è ben diversa e – ahinoi – preoccupante: i meccanismi di finanziamento del Piano Ursula sono, se possibile, più speculativi di quelli del Piano Juncker.
In effetti il Piano Junker considerava i piani privati e pubblici, una sorta di fondo di garanzia a cui si poteva accedere per realizzare i progetti che, altrimenti, non sarebbero mai partiti. Senza esprimere un giudizio sull’efficacia o meno del progetto, almeno rimaneva ancorato all’economia reale.
Il piano Von der Leyen ha dei tratti estremamente pericolosi. È il caso di riprendere per intero la citazione dal suo discorso di incarico: «Investiremo cifre record nell’innovazione e nella ricerca di avanguardia, sfruttando al massimo la flessibilità del prossimo bilancio dell’UE per concentrarci sui settori che racchiudono il maggiore potenziale. Tuttavia, poiché i finanziamenti pubblici da soli non saranno sufficienti, dovremo sfruttare gli investimenti privati ponendo la finanza verde e sostenibile al centro della catena d’investimento e del sistema finanziario. È quindi mia intenzione presentare una strategia per la finanza verde e un piano di investimenti per un’Europa sostenibile. Il piano di investimenti per un’Europa sostenibile permetterà investimenti per mille miliardi di euro nel prossimo decennio disseminati in tutta l’UE».
Nessuna risorsa aggiuntiva del bilancio europeo
Sostanzialmente, la disponibilità di risorse per il green new deal europeo non appoggia su delle disponibilità aggiuntive del bilancio pubblico europeo, piuttosto sulla consapevolezza degli operatori finanziari. Sebbene la finanza sia una potente leva del ciclo economico, non può passare inosservato che il corso dei titoli non riposa su una aspettativa matematica dei rendimenti di un progetto, piuttosto sull’opinione media di quello che ci si aspetta (Beauty Contest) sui rendimenti: lo scopo degli agenti non è stabilire il valore atteso scontato dei profitti futuri di un investimento, piuttosto quello di anticipare il cambiamento della convenzione, cioè dell’aspettativa media degli operatori che scambiano titoli sul mercato.
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Pareggio di bilancio ancora centrale
Tutto il piano politico e sociale della nuova Commissione europea è ben ancorato alle riforme strutturali (pareggio di bilancio), le quali troveranno un ulteriore sostegno nel bilancio pubblico europeo, ovvero l’istituzione di uno strumento di bilancio per la convergenza e la competitività della zona Euro che sostenga le riforme e gli investimenti propizi alla crescita negli Stati membri: un nuovo programma di sostegno alla riforma che – con una dotazione complessiva di 25 miliardi di euro – offrirà supporto finanziario e tecnico a tutti gli Stati membri per il perseguimento delle riforme prioritarie. Dove non possono arrivare i singoli Stati, arriverà la Commissione.
L’assenza di strumenti tipici delle amministrazioni pubbliche
Sebbene un’Eurozona stabile sia una condizione preliminare per l’occupazione, la crescita, gli investimenti e l’equità sociale nell’Unione, il bilancio europeo non è in linea con i principi che persegue nel suo insieme l’Europa.
Più in particolare: l’UE e la Commissione UE hanno una politica economica europea? Parlare di politica economica europea è improprio, nel senso che non è possibile utilizzare questa dizione dal momento che l’azione economica della Commissione e della UE nel suo insieme è privata degli strumenti tipici dell’amministrazione, cioè la disponibilità di enti che in qualche misura concorrono alla formazione e alla distribuzione del reddito attraverso delle misure fiscali o macroeconomiche, aumento o contenimento della domanda aggregata, per non parlare degli interventi diretti nel e sul sistema produttivo di beni e servizi.
Un conto è la definizione di una cornice finanziaria che condiziona le politiche pubbliche degli stati membri, un altro sono le modalità di attuazione delle politiche fiscali che devono traguardare gli indirizzi dell’Unione europea.
L’1% del PIL europeo per il bilancio Ue è troppo poco per gli interventi necessari
Gli indirizzi della nuova Commissione non contemplano la finanza pubblica e agganciano il proprio bilancio pubblico al misero 1% del PIL europeo. Qualora si volesse realmente predisporre delle politiche pubbliche europee, che mettano in campo un New Deal (rooseveltiano), il bilancio europeo dovrebbe essere pari ad almeno il 5% del Pil europeo, unitamente alla possibilità di indebitarsi per realizzare le infrastrutture necessarie.
Inoltre, occorre ridefinire il ruolo della Banca centrale europea, nel senso che la BCE non può avere come unico orizzonte il solo controllo dei prezzi e dell’inflazione.
Sostanzialmente, si tratta di modificare lo statuto della BCE almeno sul modello della FED. Indipendentemente dalla crisi che l’Europa deve affrontare, il bilancio europeo rimane ancorato all’1,1% del PIL europeo, e l’orizzonte di Von der Leyen adotta la proposta 2021-2027 senza nessuna modifica.
I famosi 1000 miliardi per l’ambiente non fanno parte del bilancio pubblico europeo e non è detto che questi siano scomputati dai bilanci dei singoli stati membri.
Gli effetti del Piano Juncker
Il piano Juncker si proponeva di mobilitare, (da non confondere con “impegnare”) almeno 315 miliardi tra il 2015 e il 2018. Sebbene abbastanza snobbato dagli opinion maker (sottoscritto compreso…), secondo i dati della Commissione europea di aprile 2019, sarebbero effettivamente stati mobilitati 392 miliardi di euro, di cui 63 per l’Italia.
Gli investimenti hanno coinvolto il 32% delle società di piccole dimensione, il 23% è andato alla ricerca e sviluppo, il 19% all’energia, l’11% al digitale, il 7% ai trasporti. In coda troviamo appena il 4% per ambiente e impiego efficiente delle risorse, e infrastrutture sociali.
I risultati superano le previsioni di molti critici del Piano Juncker, ma rimane ancora corretta la critica circa le modalità e le risorse impiegate dall’UE. In effetti, le risorse impegnate sono poco più di 30 miliardi di euro.
Il “successo” del Piano, paradossalmente, è la manifestazione dell’inadeguatezza delle politiche pubbliche europee.
Qualora vi fosse un impegno coerente, gli investimenti troverebbero maggiori certezze e, soprattutto, darebbero una risposta adeguata all’incertezza di keynesiana memoria. Inoltre, le risorse mobilitate sono abbastanza contenute e, di norma, dovrebbero essere spalmate sul triennio. Mobilitare l’1,5% del PIL europeo sul triennio non è propriamente una misura anticiclica, se poi consideriamo le risorse impegnate (30 miliardi), possiamo ben comprendere l’ininfluenza del bilancio pubblico europeo come agente macroeconomico.
Nella nuova proposta di bilancio, nessuna svolta su politiche di investimento
La nuova proposta di bilancio europeo (2021-2027), al netto dell’ulteriore rafforzamento del Piano Juncker per 26 miliardi di euro per il 2020, immagina di mobilitare quasi 650 miliardi tramite una garanzia dell’UE di 48 miliardi.
Non cambia il segno della politica economica, nel senso che il mercato rimane l’alfa e l’omega delle politiche di investimento.
Certamente si qualificano gli obiettivi (11 miliardi per, rispettivamente, infrastrutture sostenibili, ricerca e innovazione e piccole imprese, e 4 per investimenti sociali e competenze), ma la politica economica (normativa) dovrebbe avere ben altro segno.
La nuova presidente Von der Leyen, come già ricordato, intende mobilitare mille miliardi di investimenti green, ma la natura economico-finanziaria rimane intatta se non rafforzata. In altri termini, saranno ancora gli Stati a farsi carico del nuovo paradigma tecno-economico e la loro riuscita è direttamente proporzionale alla loro dotazione tecnologica.
Policy coerenti cercasi
Al netto delle brevi considerazioni di cui sopra, ciò che emerge è il ruolo dell’innovazione nel contenimento della CO2, che spiega il 70% delle variazioni nelle emissioni di CO2. Il progresso tecnico si concentra sempre dove la conoscenza si accumula; i nuovi settori sono sempre il risultato di conoscenze pregresse, senza le quali sarebbe impossibile sviluppare delle nuove attività.
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Il settore della “Green economy” è, forse, l’esempio più eclatante; un settore emergente che affonda le sue radici nell’elettronica e nei nuovi materiali. Le aziende innovative guidano sempre il ciclo economico, mentre tutte le altre lo inseguono. Le innovazioni vanno ad aggiungersi a quelle già disponibili, dando luogo ad un accumulo netto di conoscenze disponibili nell’economia. La domanda di tecnologie dovrebbe riportarci alle caratteristiche intrinseche del sistema produttivo nella competizione tecnologica.
La crescente consapevolezza pubblica e privata degli effetti negativi dell’attività economica sull’ambiente, ha stimolato la ricerca di policy per sostenere percorsi di crescita più rispettosa dell’ambiente.
Con la crescita delle industrie legate alla Green Economy, i governi pianificano delle politiche industriali verdi per sostenere il loro sviluppo domestico e per ottenere un vantaggio competitivo per i loro Paesi. Tuttavia, data l’incapacità dei mercati di valutare le esternalità ambientali, le industrie verdi sono guidate da politiche che sostengono il mercato, stimolando l’offerta e la domanda.
Italia pronta alle innovazioni green?
Di conseguenza, le politiche industriali verdi sono utilizzate come alternativa (la seconda migliore), ma non come politica normativa. La policy non deve guardare, quindi, al green new deal come a delle misure per contenere i costi delle cosiddette economie esterne, piuttosto dovrebbero guidare il nuovo paradigma tecno-economico che, tra le altre cose, è purtroppo polarizzato in ragione delle conoscenze tecniche cumulate nel tempo.
Concludendo con una provocazione: qualora si aprisse effettivamente una opportunità di green new deal, l’Italia sarebbe attrezzata?
* L’autore è ricercatore nel campo delle politiche industriali, contrattazione e bilancio pubblico. È stato assistente del presidente della Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati nella legislatura 1996-2001. In tale ambito si è occupato di bilancio pubblico e politica industriale, soprattutto per le società partecipate dal Ministero del Tesoro. Tra i suoi saggi: Europa e Italia. Divergenze economiche, politiche e sociali (con S. Ferrari, G. Epifani e L. Gallino, Franco Angeli, 2004); Economia Pubblica (Punto Rosso, 2006); Analisi del sistema produttivo di Varese e Milano (Enea-ISPRA, 2004); Quando gli investimenti rappresentano un vincolo. Contributo alla discussione sulla crisi italiana nella crisi internazionale (con Daniela Palma e Stefano Lucarelli), (Moneta e Credito, 2013).