Come funzionano i gender bond e come contribuiscono alla parità di genere
Dopo i green bond e i sustainability-linked bond, arrivano i gender bond: obbligazioni con cui finanziare iniziative per la parità di genere
«Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze». Così recita il quinto Obiettivo di Sviluppo Sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite. Sono le stesse Nazioni Unite, alla fine del 2022, a calcolare che – di questo passo – ci vorranno ancora 286 anni affinché le donne siano trattate in tutto e per tutto come gli uomini nei sistemi giuridici; 140 anni per raggiungere la piena parità nel management delle aziende; 257 anni per colmare il divario salariale tra uomini e donne. In teoria, la scadenza per conseguire gli SDGs è il 2030.
Appare evidente che c’è qualcosa che non va. Non si può continuare su questa strada, perché non è nemmeno lontanamente sufficiente. E se i flussi finanziari si indirizzassero verso quelle realtà e quei progetti che danno un contributo reale, e positivo, alla parità di genere? Questo è l’obiettivo dei gender bond, nuovi strumenti finanziari che stanno guadagnando una crescente popolarità.
Quando le obbligazioni sono orientate alla sostenibilità
Un bond, o obbligazione, è un titolo emesso da uno Stato, un ente pubblico o una società per finanziarsi. L’emittente incassa una certa liquidità e, a una scadenza prefissata, si impegna a restituirla assieme a degli interessi all’investitore. Quest’ultimo riceve in cambio un interesse, in genere sotto forma di cedola.
Questo meccanismo di base si declina in innumerevoli varianti, anche orientate a obiettivi di sostenibilità. Le più celebri sono le obbligazioni verdi (green bond), legate al finanziamento di progetti che hanno un impatto positivo sull’ambiente. Ci sono poi i social bond, i social impact bond, i sustainability-linked bond. E, ora, anche i gender bond.
Cosa sono e quanti sono i gender bond
Si parla di gender bond quando si raccolgono proventi da investire in progetti orientati alla parità di genere. Qualche esempio? In Tanzania, una banca ne ha emesso uno per finanziare circa duemila piccole imprese a guida femminile. In Spagna, l’amministrazione dell’Andalusia ha emesso un’obbligazione (inquadrata però come sustainability bond) per potersi fare carico dell’assistenza legale alle vittime di violenza di genere. La società di investimenti svedese EQT ha raccolto liquidità impegnandosi a raggiungere alcuni obiettivi: oltre al taglio delle emissioni di gas serra, c’è anche una più consistente presenza di donne tra i consulenti d’investimento e nei consigli di amministrazione delle società in cui investe.
Quella dei gender bond è ancora una nicchia, ma dalle potenzialità interessanti. A seconda della fonte e del metodo di calcolo, si stima che ne siano stati emessi fra i 50 e i 300. Con l’Europa in prima linea. È quanto riferisce a We Wealth Anita Bhatia, vice-direttrice esecutiva di UN Women.
Esempi di gender bond, dal Messico al Kirghizistan
Il primo gender bond messicano ha riscosso un’ottima accoglienza sul mercato. Emesso nell’autunno del 2020 da un’istituzione pubblica chiamata FIRA (Fideicomisos Instituidos en Relación con la Agricultura), vale tre miliardi di pesos (circa 160 milioni di euro) con una scadenza a tre anni. Ma le richiese di sottoscrizione sono state quasi quattro volte tanto. I proventi servono per finanziare – o rifinanziare – progetti a guida femminile nel settore agricolo, forestale e della pesca. Per esempio offrendo quell’accesso al credito che, finora, è stato sistematicamente negato al 70% delle imprese a conduzione femminile nella regione dell’America Latina e dei Caraibi.
Tra i casi di successo c’è anche uno Stato di cui di rado si sente parlare in ambito finanziario, il Kirghizistan. Emesso dalla Bank of Asia, il gender bond ha scadenza a tre anni e un valore nominale complessivo di 82 milioni di som kirghisi, cioè poco meno di 865mila euro.
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Prospera, una rete di fondi femministi
Non se ne sente parlare spesso, ma esistono anche i fondi femministi. In questo caso dunque non si tratta di titoli di debito emessi da imprese, Stati o amministrazioni, bensì di istituti che mobilitano risorse finanziarie e le erogano direttamente ai beneficiari che hanno scelto. Perché “femministi”? Perché a ricevere questi soldi sono organizzazioni e movimenti che supportano donne, ragazze e persone transgender e non binarie (ovvero che non si riconoscono nella distinzione maschio-femmina). Con un occhio di riguardo per l’inclusione dei gruppi marginalizzati.
Questi fondi femministi sono riuniti in una rete internazionale. Si chiama Prospera e conta 47 membri che, messi insieme, muovono 120 miliardi di dollari all’anno in media, erogando più di 2.800 finanziamenti in 172 Stati. Di nomi italiani, per ora, non ce ne sono. C’è però un’ampia rappresentanza europea, tra Spagna, Francia, Croazia, Germania, Polonia, Georgia. Dopo l’invasione da parte della Russia, il fondo femminista ucraino ha proseguito il suo lavoro. Gli altri si sono subito attivati per supportarlo e per reintegrare le riserve che aveva dovuto spendere per fare fronte all’emergenza.