Imprese, banche, università e associazioni. Il cammino in salita delle donne

In tutti i settori, a fronte di un accesso piuttosto omogeneo, la carriera per le donne è sensibilmente più difficile rispetto agli uomini

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Nelle imprese, così come nel mondo delle università e in quello finanziario, le donne faticano a raggiungere posizioni dirigenziali © Ponomariova_Maria/iStockPhoto
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Per capire il significato di soffitto di cristallo, quella barriera invisibile e insormontabile che impedisce alle donne e alle minoranze di avanzare in carriera, a prescindere dai titoli posseduti o dai risultati ottenuti, è sufficiente osservare l’immagine seguente.

Fonte: Bloomberg Gender-Equality Index 2021

Il Bloomberg Gender-equality index (GEI) è uno dei maggiori indici internazionali in materia di Diversity&Inclusion. L’edizione 2021 fornisce i dati per l’anno fiscale 2019 per conto di 464 società quotate in Borsa, che operano in 11 settori merceologici. L’industria finanziaria, con 142 imprese sul totale, è quella maggiormente presente, in crescita rispetto al 2020 di 14 unità.

I soffitti di cristallo nel Gender-equality index di Bloomberg

Le imprese che entrano in questo indice sono società private che pubblicano informazioni e dati sulle loro politiche di diversità di genere. Queste ultime sono oggetto di interesse crescente da parte degli investitori. Attenti soprattutto a società che riescono a mantenere stabili e solidi questi aspetti, in un mercato finanziario in cui la lettera “S” di ESG (ambiente, sociale e governance) sta assumendo sempre più importanza.

Nelle aziende incluse nell’indice l’ingresso nel mondo del lavoro è sostanzialmente pari per genere, con le donne sotto di soli 2 punti percentuali. Da lì, la scalata ai vertici mostra una distanza enorme, con il 21% di donne in posizione esecutiva e appena il 6% di amministratrici delegate.

All’indice 2021 ha aderito un numero record di aziende, con un punteggio di divulgazione pari al 94%, contro però un punteggio di eccellenza del 55%. Quest’ultimo rappresenta lo score legato a cinque criteri: leadership femminile e percorsi di crescita di talenti, retribuzione equa e parità di retribuzione di genere, cultura inclusiva, politiche sulle molestie sessuali e brand rivolti alle donne.

L’indice di Bloomberg come strumento di visibilità

In sostanza, numerose aziende quotate in Borsa a livello globale fanno a gara per partecipare a un indice di riferimento che presenta una soglia stabilita da Bloomberg stessa. E che non viene utilizzato come benchmark finanziario ma come strumento di visibilità sulle azioni, più o meno concrete ed efficaci, in materia di gender diversity .

Da come vengono riportati i dati, annualmente, dai media e dalle imprese, appare chiaro che l’interesse non risieda tanto nei risultati statistici della rilevazione, quanto nell’essere inseriti in questo indice. Un processo puramente comunicativo o che, anche se lentamente, si porta dietro delle sostanziali modifiche? Se infatti la presenza femminile a livello di ingresso e di livelli intermedi comincia ad avere una rappresentanza importante, ai posti di potere non si vedono ancora cambiamenti sostanziali. Se i comunicati stampa di Bloomberg parlano di «progressi che aiutano le aziende a valutare dove si trovano nel percorso della parità di genere rispetto ai loro concorrenti e a acquisire responsabilità verso i propri obiettivi», a quando un cambiamento sostanziale nei ruoli dirigenziali?

In Europa male Svizzera e Germania

L’approfondimento su Italia e Europa è realizzato da Ewob – European Women on Boards. Che ogni anno analizza la rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione e nei vertici aziendali di 98 società quotate dell’indice STOXX Europe 600.

Solo il 5% ha un indice di diversità di genere (GDI) uguale o maggiore di 0,8 (con il punteggio massimo rappresentato da 1). 23 di queste 30 imprese si concentrano in tre Paesi: Francia, Regno Unito e Svezia. Nel top 30 anche una azienda formalmente italiana, la Exor, ma che è la holding finanziaria olandese controllata dalla famiglia Agnelli. Se l’Italia è poco rappresentata ai vertici, non ha nessuna imprese tra le 20 peggiori. Dove svettano per scarsità di rappresentanza di genere la Svizzera e la Germania.

Fonte: European Women on Boards Gender Diversity Index 2020
Fonte: European Women on Boards Gender Diversity Index 2020

Anche qui, come nel GEI di Bloomberg, le donne rappresentano meno del 5% dei CEO. I presidenti donna sono solo 41, pari al 7% di tutte le aziende analizzate.

Fonte: European Women on Boards Gender Diversity Index 2020
Fonte: European Women on Boards Gender Diversity Index 2020

È interessante notare che non tutti i Paesi con quote vincolanti per i membri del consiglio siano in cima alla classifica. Infatti, questo è il caso solo di Francia e Norvegia. Gli altri Paesi hanno un GDI medio (Belgio, Italia) o inferiore alla media (Germania).

Italia al settimo posto in termini di rappresentanza delle donne nei Cda

Il Gender Diversity Index classifica l’Italia al settimo posto tra i 12 Paesi europei inclusi con un punteggio di 0,53. C’è una differenza significativa, nel nostro Paese, tra la rappresentanza femminile nei consigli di amministrazione e a livello esecutivo. Grazie alle leggi sulle quote di genere e, in particolare, alla legge Golfo – Mosca del 2011, abbiamo infatti la più alta percentuale di donne presidenti di consigli di amministrazione e/o consigli di sorveglianza. E la seconda più alta percentuale di donne membri di consigli e di comitati di controllo. Il dato crolla, però, per le donne presidenti dei consigli di amministrazione. Cioè in ruolo di governo di una grande azienda, a riprova che la diversità di genere ai vertici delle società quotate è ancora lontana.

Fonte: European Women on Boards Gender Diversity Index 2020
Fonte: European Women on Boards Gender Diversity Index 2020

Fortune 500 è la lista annuale che classifica le 500 maggiori imprese societarie statunitensi misurate sulla base del loro fatturato. Le donne dirigenti hanno raggiunto nel 2021 il numero di 41, un “record assoluto” anche per la presenza, per la prima volta, di due donne afroamericane. Tuttavia, anche se il numero di CEO donne è in aumento, rappresenta ancora solo l’8,2% delle imprese classificate.

Nel 2020 erano 37, nel 2019 33, 24 nel 2018. E per mettere le cose in prospettiva, 20 anni fa erano solo due le aziende Fortune guidate da donne.

Due terzi delle banche europee non sono guidati da donne

Le iniquità di genere sono largamente diffuse anche nella composizione dei CdA delle banche. Stando ai risultati di uno studio dell’Autorità Bancaria Europea, due terzi degli istituti di credito europei presentano uomini ai vertici.

In Italia, in particolare, la rappresentanza femminile nei CdA degli istituti di credito è del 21,7%.

Fonte: FEBEA – Federazione delle Banche etiche e alternative europee

Anche nel mondo delle banche etiche e alternative Europee rappresentate da FEBEA c’è ancora molta strada da fare. Come afferma Anita Wymann, presidente dell’istituto di credito svizzero Alternative Bank Schweiz, «guardando ai dati, le banche etiche e alternative non sono diverse dalle banche tradizionali, in questo ambito. Ed è, oltretutto, un errore, perché l’esperienza pratica e numerosi studi dimostrano chiaramente che gruppi di lavoro eterogenei danno ottimi risultati».

I dati confortanti (ma non eccellenti) del Terzo settore

In Italia i dati della partecipazione femminile al Terzo settore sono molto alti. Più di un milione e 800mila volontari sono donne, 636.171 sono le lavoratrici, a fronte di 313.830 uomini.

Questo perché, secondo Claudia Fiaschi, a lungo portavoce del Forum del Terzo Settore, gli ambiti di intervento sono tradizionalmente quelli in cui le donne si spendono maggiormente. Con un contesto che permette forme di impegno più concilianti rispetto ai ritmi del lavoro. Tuttavia, da un’analisi dell’Unione Europea delle Cooperative (UeCoop) alla fine del 2018, in Italia, su 80mila imprese cooperative presenti, 19mila risultavano gestite da donne, pari al 23,75%.

Emerge anche nel Terzo Settore, come in quello delle banche etiche e alternative, una difficoltà nell’ottenimento della parità di genere nei ruoli apicali. Sempre secondo Claudia Fiaschi, se la situazione, in generale, rende evidente che c’è ancora molto lavoro da fare perché le donne ottengano una vera e propria parità di genere nei ruoli dirigenziali, racconta anche di una grande reticenza da parte delle donne rispetto al tema della consapevolezza e dell’assunzione di responsabilità. Ossia della loro capacità di occupare spazi “di potere”, senza autolimitarsi.

Donne e disparità, il mondo accademico non fa eccezione

A fine 2020 il Consiglio universitario nazionale del ministero dell’Università e della Ricerca ha redatto un documento che mostra i risultati di un’analisi comparativa dei dati statici per il 2008 e il 2018 relativi alla presenza delle donne nel sistema universitario italiano. E anche in questo caso il soffitto di cristallo c’è, eccome: le donne e gli uomini partono sostanzialmente con gli stessi numeri (anzi, si laureano più donne che uomini), ma i professori maschi associati e, soprattutto, i professori maschi ordinari, continuano a essere la stragrande maggioranza. Tra gli associati le donne rappresentano il 38% del totale (era il 33% nel 2008), tra gli ordinari il 24% (nel 2008 erano il 19%).

il Consiglio universitario nazionale ha presentato sul tema dieci proposte, come strategia di mitigazione del problema. Otto di queste sono dei semplici auspici, degli indirizzi culturali. Delle due proposte più dettagliate, è interessante quella di introdurre, tra gli indicatori legati al finanziamento premiale delle università, parametri che promuovano la parità di genere per quanto riguarda, in particolare, il reclutamento e le carriere del personale.

Le università, a seguito di queste proposte, sono tenute a redigere un “Piano di Azioni Positive” (PAP) volto alla definizione e programmazione di azioni per il raggiungimento della parità di genere da inserire nel Piano strategico. Devono anche predisporre un “Bilancio di Genere” che dovrebbe rappresentare il documento cardine da cui partire con le politiche di Ateneo in materia di parità di genere.

Equity in progress: dall’Europa, agli Stati Unit, all’Italia

Il Parlamento europeo ha approvato il 21 gennaio 2021 la nuova strategia comunitaria per la parità di genere 2020-2025. Insieme al Next Generation EU, il piano traccia le azioni chiave per porre fine alle discriminazioni e al divario di genere, priorità politica della presidente von der Leyen.

In coerenza con la Strategia europea, quindi, il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza (PNRR) italiano presenta una Strategia Nazionale per la parità di genere 2021-2026 che prevede cinque priorità: lavoro, reddito, competenze, tempo, potere. L’obiettivo è la risalita di cinque punti entro il 2026 nella classifica del Gender Equality Index, da 63,5 a 68,5 (sopra l’attuale media UE di 67,9).Nel PNRR è stato introdotto il tema del gender mainstreaming, su cui si è concentrata Ursula von der Leyen, designando una commissaria per l’uguaglianza, la maltese Helena Dalli. Si tratta della possibilità, da parte dei decisori politici ed economici, di interpretare il genere come elemento trasversale di tutte le politiche pubbliche.

A luglio 2021, infine, il dipartimento per le Pari Opportunità ha pubblicato per la prima volta in Italia, la Strategia nazionale per la parità di genere. Una “misura trasversale”, che si inserisce come strategia di riferimento per l’attuazione del PNRR e la riforma del Family Act.

Per approfondire un tema nuovo, complesso ma fondamentale per il prossimo futuro italiano ed europeo, abbiamo intervistato Marcella Corsi, ordinaria di Economia Politica presso La Sapienza di Roma.