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L’intelligenza artificiale sconfiggerà il greenwashing?

AI, numeri, algoritmi: così si smascherano le operazioni di greenwashing delle aziende. Lo hanno spiegato di recente due analisti di Deutsche Bank

Matteo Cavallito
© United Soybean Board/Flickr
Matteo Cavallito
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«È una vergogna che molte aziende facciano greenwashing nella loro attività di comunicazione, tanto più che questa scelta finisce per influenzare i punteggi di sostenibilità». Sono parole severe quelle utilizzate di recente dagli analisti di Deutsche Bank Andy Moniz e Spyros Mesomeris. Ma il tema, d’altra parte, lascia poco spazio alle alternative semantiche. Per le aziende di tutto il mondo – complice l’ascesa degli investimenti responsabili – comunicare la propria adesione all’universo ESG (Enviroment, social, governance) ovvero la propria responsabilità ambientale, sociale e di gestione di impresa, è diventata ormai un’esigenza: oggi l’85% delle aziende dell’indice S&P 500 pubblica un rapporto sulla propria “sostenibilità”, contro il 20% del 2011. Le critiche però sono sempre dietro l’angolo. Troppa retorica e poca sostanza, si dice. Fumo negli occhi per confondere gli investitori e gli osservatori in genere. Non vale per tutti, d’accordo, ma la pratica pare molto diffusa. La buona notizia in ogni caso è che la tecnologia potrebbe finalmente dare una mano a smascherare l’inganno. Potenza dei dati ovviamente. E dell’intelligenza artificiale.

Nel 2011 soltanto un quinto delle aziende quotate dello S&P 500 pubblicava un rapporto sulla propria sostenibilità di impresa. Oggi siamo saliti all’85% © Governance & Accountability Institute, 28 marzo 2018.

Cos’è il greenwashing?

Il termine greenwashing è stato utilizzato per la prima volta nel 1986 dall’ambientalista statunitense Jay Westerveld, in risposta alle campagne pubblicitarie del colosso petrolifero Chevron. La multinazionale, notavano i critici, stava cercando di costruirsi un’immagine gradevole agli occhi del pubblico promuovendo le proprie iniziative per la protezione degli animali. Operazioni lodevoli, forse, ma in netto contrasto con un curriculum di violazioni delle normative ambientali che si sarebbe ampiamente arricchito negli anni successivi. Col tempo il significato dell’espressione si è allargato fino a comprendere tutte quelle strategie di comunicazione che servono a costruire un’immagine positiva quanto ingannevole attorno all’impresa. Il fenomeno è diventato così rilevante che gli analisti non possono più permettersi di ignorarlo. Nei primi otto mesi del 2018, ad esempio, l’organizzazione no profit londinese Climate Bonds Initiative ha studiato le caratteristiche di oltre 120 miliardi di dollari di obbligazioni verdi presenti sul mercato. Quasi un quarto dei titoli (28,2 miliardi) è stato giudicato incompatibile con i principi basilari di tutela dell’ambiente.

Il greenwashing negli anni ’80

Parole, parole, parole

Ma come si combatte concretamente il greenwashing? Stanando la sua presenza nei report sulla sostenibilità spiegano Moniz e Mesomeris in un articolo pubblicato nell’ottobre 2018 su Konzept, la rivista della divisione ricerca di Deutsche Bank. Un’operazione, precisano, che può essere condotta solo attraverso l’artificial intelligence (AI), strumento decisivo per svolgere in tempi rapidi un’analisi su vasta scala di fronte a una mole enorme di informazioni. Negli anni, si diceva, è cresciuto il numero dei report. Ma sono aumentate anche le parole: nelle relazioni consegnate ogni trimestre alla SEC – l’ente che vigila sulle società quotate a Wall Street – se ne contano in media 50 mila per azienda, più del doppio rispetto a vent’anni fa. E non è tutto: in passato le analisi sull’ESG si basavano in larga parte su questionari a risposta chiusa. Oggi la situazione è completamente diversa: nei rapporti di sostenibilità le imprese possono inserire fino a 300 diversi indicatori senza preoccuparsi della qualità dei medesimi. «L’obiettivo – scrivono i ricercatori – è quello di influenzare la percezione di trasparenza aziendale da parte degli investitori, ovvero fare greenwashing».

Algoritmi all’attacco

Analizzando i testi e confrontando i dati attraverso un programma noto come α-Dig, un sistema di apprendimento automatico basato sugli algoritmi, si dimostrerebbe la capacità delle aziende di influenzare non solo la percezione dei lettori ma anche i giudizi dei data vendor, gli analisti esterni che forniscono informazioni agli investitori. Le società più grandi – che hanno maggiori risorse da destinare alla stesura delle relazioni – otterrebbero ad esempio punteggi ESG più alti (3 punti e mezzo in più per ogni miliardo di dollari di capitalizzazione). Quelle che producono i rapporti più lunghi vengono premiate con giudizi migliori (un quarto di punto ogni pagina, secondo i ricercatori); stesso discorso per la varietà di linguaggio e l’utilizzo generoso di termini “positivi”. Le aziende che pongono maggiore enfasi sugli obiettivi e i traguardi da raggiungere, infine, sono sottoposte a giudizi più lusinghieri. L’auspicio, ovviamente, è che in futuro siano gli stessi data vendor ad utilizzare algoritmi simili per poter produrre valutazioni più precise.

Cresce il pressing sulle imprese

Ultimamente, ha notato Bloomberg, l’attenzione degli investitori nei confronti del greenwashing si è intensificata. Ne sa qualcosa Volskwagen che dopo aver pubblicizzato l’immagine del “diesel pulito” (Sic) si è trovata a fronteggiare lo scandalo delle emissioni truccate. E non fanno eccezione colossi come Walmart e Amazon che hanno patteggiato una multa con lo Stato della California dopo aver commercializzato come biodegradabili prodotti in plastica che tali non erano. Oggi, rileva ancora l’agenzia, meno del 10% delle aziende accetta di sottoporre i propri report di sostenibilità ad analisti esterni. La mancanza di “regole” condivise, infine, complica ulteriormente la situazione. Al punto che sono oggi gli stessi grandi operatori (gestori e fondi pensione) a chiedere alle compagnie l’utilizzo di criteri standard nella stesura dei loro rapporti.