Senza neve artificiale l’industria dello sci non regge. Ma a quali costi?
I cambiamenti climatici rendono obbligatorio "sparare" neve con i cannoni, non solo a quote basse. Ma l'impatto su ambiente e conti dei comprensori è spesso insostenibile
«La neve programmata ormai è fondamentale per diversi motivi. Il primo è che rappresenta una sorta di polizza di assicurazione: se non viene la neve, la fabbrichiamo. Ma non è un’assicurazione soltanto per gli impianti sciistici. Perché nel momento in cui ho fatto la neve, questa polizza di assicurazione vale anche per il sistema economico delle località di montagna». Parola di Valeria Ghezzi, presidente di Anef (Associazione nazionale esercenti funiviari).
Tradotto. Senza la neve artificiale, o ” neve tecnica”, per dirlo più propriamente, addio sci, o quasi. E cioè addio – a meno di una profonda riconversione delle località sciistiche – a una parte degli introiti di un settore turistico come quello della montagna che riguarda 4 milioni di appassionati degli sport invernali. Il settore che complessivamente nel 2017-2018, prima del segno negativo nelle presenze (-3,6%) e nel fatturato (-4,7%) evidenziato con la stagione invernale successiva, valeva circa l’11% del PIL turistico nazionale, con un fatturato che superava gli 11 miliardi di euro (dati dell’Osservatorio sul turismo montano). E di questi, 4,6 miliardi sono prodotti dallo sci in senso stretto.
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Un fattore chiave per il turismo invernale
Un vero patrimonio, fatto – anche ma non solo – da oltre 400 aziende per 1820 impianti di risalita, che usano 840 gatti della neve. Il comparto dei soli impianti funiviari rappresentati da Anef che occupa in modo diretto 12mila persone e altri duemila lavoratori in attività connesse (rifugi, noleggi, scuole di sci).
È evidente che, per il mantenimento di tutto ciò, la presenza di un manto nevoso costante e abbondante costituisce un fattore chiave. Ormai quasi nessuno può così prescindere dalla possibilità di fabbricare la neve quando e dove serve. Indispensabili diventano così le tecnologie sempre più sofisticate, che stanno dietro al cosiddetto “innevamento programmato” e al comparto dello snowfarming, che sopperisce all’irregolarità e alla carenza di neve naturale, soprattutto alle quote più basse e a causa dell’aumento delle temperature che riduce i tempi di permanenza della neve al suolo e sulle piste.
Neve per sopravvivere, ma non è gratis
La questione, innanzitutto, è di sostenibilità economica e riguarda impianti e resort non più redditizi, nonché i costi di gestione in progressivo aumento per gli oltre 3200 chilometri di piste attive (90,5 km quadrati), perlopiù (72%) dotate di sistemi d’innevamento programmato. Tali spese non pesano solo sui privati, poiché diversi impianti di risalita sono società partecipate da Regioni, Province, comunità montane o comuni (Nevediversa 2019). In termini assoluti, comunque, la produzione di neve arriva a costare tra gli 11 e i 15mila euro per ettaro, a seconda dell’esposizione e della natura del terreno, del sole, della dislocazione dei bacini di approvvigionamento d’acqua. Per la costruzione di tali impianti si spazia poi tra i 100 e i 140mila euro per ettaro, da ammortizzare in vent’anni. E la competizione tra le località si gioca in gran parte su questi aspetti.
«Un area sciistica che vuole competere sul mercato internazionale e attirare turisti e sciatori, deve essere in grado di innevare le sue piste in meno di 100 ore».
Temperature negative sempre più rare
Questo è il parametro che un’area sciistica come Madonna di Campiglio, Plan de Corones o Kitzbuhel, quelle più famose dell’arco alpino, deve considerare se vuole stare sul mercato.«Ma sempre più spesso accade che sia difficile avere 100 ore consecutive di temperature negative». Così spiega l’ingegner Francesco Besana di Neve XN (cioè “Neve PerEnne”), startup specializzata appartenente, tramite la Demaclenko di Vipiteno (Bz), a uno dei due gruppi italiani leader a livello mondiale, il Gruppo Leitner (l’altro è Technoalpin).
Per questa crescente domanda di neve, connessa al riscaldamento globale, che Neve XN sviluppa macchine capaci di produrre neve a temperature positive, alimentate a energia elettrica oppure termica. E la differenza non è da poco, perché avendo una base di elettricità, che serve per far girare le pompe e i liquidi, l’utilizzo dell’energia termica abbatte il costo della neve prodotta fino a 1,50-2 euro al metro cubo. «Anche se – precisa Besana – devi avere a disposizione una centrale» come quella di teleriscaldamento di Cavalese, sfruttata per innevare il percorso della Marcialonga bruciando il legno dei pini abbattuti dal ciclone Vaia.
Lance e cannoni, freddo acqua e aria: ecco la neve tecnica
Ma la neve tecnica come si produce? Sgomberiamo subito il campo dall’ipotesi che vengano usati additivi chimici: i tecnici non li ritengono necessari né utili: metterebbero in pericolo i pascoli nel periodo estivo, e perciò sono unanimemente rifiutati dagli operatori, anche perché sono esclusi anche da diversi controlli dei carabinieri del Noe. L’innevamento programmato inizia dalla materia prima: dall’acqua, prelevata soprattutto da invasi naturali o artificiali, come laghi e ruscelli.
Quest’acqua, sfruttando la pendenza a favore, altrimenti sospinta con delle pompe dal basso o da fondovalle, viene trasportata attraverso delle condotte che corrono verso e lungo le piste fino alle macchine che la miscelano con l’aria sotto pressione e a bassa temperatura. Sono i cosiddetti cannoni sparaneve (o meglio, generatori di neve a ventola) o le lance (che hanno una gittata ridotta), e costituiscono i terminali delle tubature. Altrimenti, soprattutto per generare neve a bassa quota o per eventi specifici, si usano delle grandi macchine frigorifere trasportabili.
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Efficienza dei sparaneve quintuplicata in 15 anni
Si tratta di tecnologie che, «rispetto alle macchine di 15 anni fa, a parità di acqua e di energia consumata, producono una quantità di neve quintuplicata», spiega Ghezzi. Oggi sono controllabili anche da remoto o programmabili per lavorare solo quando quando fa più freddo e il dispendio di energia è minore. E la neve che producono – che alla fine del suo ciclo torna in massima parte nell’ambiente sotto forma liquida – varia per densità (in base alla parte d’acqua) secondo le necessità, cambia man mano per la naturale umidità dell’aria e le variabili atmosferiche (sarebbero decine i modi di chiamare la neve).
Poiché generare la neve ha un costo, e a stenderla sulle piste al momento sbagliato si rischia che venga sciolta dal sole o lavata dalla pioggia, raramente se ne fa più di quanta necessita. Semmai se ne tiene una riserva raccolta in mucchi, in luoghi protetti da sole e intemperie, in attesa che i gatti delle nevi la lavorino.
Neve tecnica facile da fare. Ma con quale energia?
Stabiliti i costi monetari elevati della neve per sciare, sempre più decisivi anche per l’industria bianca che ne trae profitto, quale impatto può avere questa attività sull’ambiente? Purtroppo non esiste un’analisi complessiva ed estesa a livello nazionale o regionale. Lo studio Carbon e Water Footprint di impianti di innevamento programmato, condotto dai ricercatori dell’Enea su 3 impianti in aree geografiche e condizioni operative diverse nelle stagioni 2014-2015 e 2015-2016, permette comunque una base di ragionamento.
L’impatto, in termini di CO2 equivalente, per i tre impianti analizzati spazia da circa 700 a 1300 chilogrammi per ettaro innevato per l’intera stagione sciistica: un valore puramente indicativo – sottolineano gli scienziati – e senza significato statistico, poiché non paragonabile a casi simili analizzati a parità di condizioni. Dei tre impianti uno solo è alimentato con energia fossile, e proprio perciò nel computo dei suoi contributi alle emissioni di gas serra la voce del prelievo e del pompaggio dell’acqua sono le più sostanziose (rispettivamente col 40% e il 31%). Negli altri due, alimentati da energia idroelettrica, quindi rinnovabile, a incidere maggiormente è invece la realizzazione dei materiali della rete di distribuzione (le condotte), per l’82%. Una percentuale che cresce al 94% simulando che anche il primo funzioni grazie all’idroelettrico.
Se quindi, a parte le emissioni generate per la costruzione della rete di tubi, ad essere dirimente è la voce energia, ci si chiede quanto sia dannoso per l’ecosistema voler sciare laddove l’innevamento non è basato su fonti energetiche pulite.
Consumi a 357 milioni di kWh annui
Pur non essendoci un censimento nel merito impianto per impianto, Anef registra che i consumi energetici del settore degli impianti funiviari, da cui l’innevamento dipende, ammontano a 357 milioni di kWh annui, dei quali deriva da fonti rinnovabili certificate oltre il 40%. Tanto ma non ancora abbastanza. «L’alimentazione degli impianti è da energia idroelettrica sicuramente per tutta la Val d’Aosta, tutta la Valtellina, quindi l’alta Lombardia, il Trentino Alto Adige e anche il Veneto» conferma Ghezzi. «Gli impianti che vanno a energia fossile sono quelli vicini alle città. Quelli prealpini. E qualcosa in Appennino, dove avere a disposizione l’idroelettrico non è la normalità».
Battipista: in montagna si va ancora a gasolio
Ma non è tutto. Perché se il tema dell’acqua è legato sì alla scarsa disponibilità che si ritrova in certe località, ma comunque la neve programmata torna pulita nell’ambiente a fine del suo ciclo, c’è almeno un ultimo aspetto collaterale da considerare. Perché per avere quel manto nevoso liscio che tanto piace ai turisti della montagna e agli sciatori di ogni età, non basta sparare la neve, sulla pista bisogna portarla, stenderla e batterla lungamente. Tanto che (oltre ai danni più evidenti causati dalla stesura delle tubazioni e dell’impiantistica necessari all’innevamento artificiale lungo le piste) proprio l’effetto di disturbo operato dalla gestione e preparazione delle piste è indicato dagli ambientalisti come fattore di stress che «causa l’alterazione del normale assetto ambientale» (Alpi, turismo & ambiente: alla ricerca di un equilibrio, Wwf 2006) in molteplici modi.
A svolgere questo compito sono le squadre dei diversi impianti e comprensori sciistici, che col gatto delle nevi la sera e la notte fino all’alba lavorano costantemente, spesso a temperature e in condizioni atmosferiche proibitive.
Una flotta di circa 840 battipista si muove sulle montagne italiane. Ed è come se fosse una flotta di altrettanti camion con motori alimentati a gasolio e potenze intorno ai 400 cavalli operasse per ore, con tutte le conseguenze di inquinamento ambientale e acustico del caso.
La transizione all’elettrico ancora lontana
Certo parliamo di una goccia nel mare rispetto all’enormità delle emissioni di CO2 dei turisti in auto da e per le località montane, ma non si può ignorare. Anche perché, pur rispettando le normative europee relative ai mezzi da lavoro, al momento nessuna delle due principali case costruttrici di battipista (l’italiana Prinoth del gruppo Leitner e la tedesca Pistenbully) ha messo sul mercato alcun veicolo a propulsione completamente elettrica, come nel settore dei mezzi pesanti. E solo i tedeschi sembrano avere in catalogo un mezzo che associa i due tipi di motori. Problemi tecnici e costi produttivi ancora insormontabili, soprattutto per i mezzi destinati a operare a grandi pendenze e temperature molto basse, con grande fabbisogno di potenza, anche per far funzionare lame e frese, non preludono alla possibilità di una svolta green a breve termine.