Crescita e futuro incerto. L’economia sociale alla prova della crisi
Il comparto italiano cresce ed è sempre più autonomo dagli aiuti statali. Ma la crisi post coronavirus è una minaccia per il futuro. E richiede interventi urgenti
L’economia sociale cresce, in Italia e nel resto d’Europa. Ma questa stessa tendenza rischia ora di andare incontro a una brusca inversione. Colpa di una crisi sui generis che investe e penalizza anche e soprattutto il terzo settoreL’insieme degli attori economici che si collocano idealmente tra lo Stato e il libero mercato e che svolgono funzioni di utilità sociale.Approfondisci, comparto dai confini mobili, specialmente al suo interno, e più che mai variegato. E non sorprende che nei giorni più difficili del terremoto Covid-19 gli appelli più sentiti siano arrivati proprio dal mondo non profitL’orientamento delle organizzazioni che operano con finalità solidaristiche e che si impegnano a reinvestire gli utili nel finanziamento delle attività delle organizzazioni stesse.Approfondisci.
Dallo scoppio dell’emergenza coronavirus molte realtà dell’economia sociale «hanno registrato un crollo del fatturato dell’80%» si legge in uno degli appelli più diffusi. Il dato percentuale, prosegue la nota, «rischia di esplodere e provocare un vero e proprio default delle imprese se non si mettono in campo interventi e misure adeguate».
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350mila enti, 850mila lavoratori
Economia sociale, espressione concreta dei soggetti dell’economia civileVisione generale dell’economia basata sui principi di reciprocità e solidarietà che si pone come alternativa all’economia di mercato tradizionale in senso capitalistico.Approfondisci, concetto molto filosofico ma non aleatorio che si esprime come alternativa all’economia di mercato in senso stretto. Economia sociale ovvero terzo settore che tecnicamente fa rima con non profit. Ma non beneficenza, sia chiaro. Gli operatori del settore e gli osservatori lo ripetono ossessivamente e non certo senza ragione. Potenza dei numeri, incerti da sempre, è noto, ma non così tanto da nascondere la sostanza del fenomeno.
L’ultimo censimento Istat, diffuso nel 2019 ma relativo ai dati 2017, parla di circa 350mila enti del terzo settore (contro i 235mila di inizio secolo) e di circa 850mila lavoratori. Parliamo insomma di istituzioni senza scopo di lucro ma non per questo prive di impatto economico. E basta disaggregare le cifre per cogliere il senso di quella che viene definita abitualmente economia socialeL’insieme dei soggetti che operano con una visione orientata all’economia civile ovvero perseguendo un obiettivo più ampio rispetto al profitto che, da parte sua, assume un caratteApprofondisci.
L’economia sociale è fatta di vere e proprie imprese
«In Italia ci sono circa 20mila enti del terzo settore che pur mantenendo un orientamento no profit hanno assunto una vera e propria struttura imprenditoriale», spiega Gianluca Salvatori, segretario generale di Euricse, l’istituto che di recente ha realizzato una mappatura dell’ecosistema delle imprese socialiL’insieme degli attori economici che si collocano idealmente tra lo Stato e il libero mercato e che svolgono funzioni di utilità sociale.Approfondisci per la Commissione europea. Di cosa si tratta? Cooperative sociali e imprese sociali ovviamente, riconosciute come tali dalla legge italiana; ma che hanno un impatto importante anche su associazioni culturali, soggetti del volontariatoIstituzione basata sul contributo volontario e gratuito di soggetti che operano con motivazioni di solidarietà e utilità sociale.Approfondisci, associazioni sportive. E su tutti gli enti variegati che raccolgono quote di adesioni e vendono servizi anche se, ovviamente non redistribuiscono mai utili o asset.
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«20mila soggetti fatturano 12 miliardi di euro»
Il fatto è che, in un contesto da 350mila soggetti, le 20mila imprese sociali pur rappresentando di fatto una minoranza costituiscono anche la locomotiva del settore. «Secondo le nostre stime, queste imprese registrano un fatturato di 12 miliardi di euro, circa un sesto del turnover complessivo del terzo settore. E danno lavoro a 500mila persone, sul totale di quasi 900mila dell’intero comparto» dichiara Salvatori. In tutto questo, per altro, i contributi pubblici pesano sempre meno.
Tra il 2011 e il 2015, segnala l’ultimo studio della Fondazione Italia Sociale, i ricavi complessivi del terzo settore hanno raggiunto i 70,4 miliardi di euro con una crescita di 6,5 miliardi. Nello stesso periodo i contributi statali a titolo gratuito e i proventi derivanti da contratti con gli enti pubblici sono diminuiti in media di quasi un terzo, sottraendo circa 1,5 miliardi di euro. «Di contro» scrive la Fondazione, «si hanno aumenti in tutte le altre voci: di rilievo gli incrementi derivanti dalla vendita di beni e servizi (+4 miliardi circa) e dai contributi degli aderenti (+2,4 miliardi)».
Meno Stato, più imprese
Proprio la ritirata dello Stato, in un certo senso, ha stimolato lo sviluppo delle imprese sociali. «Venendo a mancare il sostegno pubblico il terzo settore ha dovuto procurarsi nuovi canali di finanziamento mettendosi sul mercato» spiega ancora Salvatori. Il vincolo no profit – ovvero il divieto di redistribuire utili – viene rispettato ma gli enti assumono una forma organizzativa più vicina a quelle delle aziende. Insomma, diventano imprese sociali di fatto. E, quando si tratta di censirle, la mancanza di una definizione condivisa si fa sentire. Applicando i criteri più larghi utilizzati nelle analisi condotte in altri Paesi del Continente, ha osservato Euricse, il numero delle imprese sociali in Italia salirebbe da 20mila a 94mila circa, il valore nazionale più alto d’Europa.
Dopo la crisi: l’economia sociale sarà l’ultima a ripartire
Sulle stime, come si diceva, si potrebbe discutere a lungo. Ma il trend di crescita è evidente. Lo segnala l’intensa attività legislativa osservata in Europa negli ultimi dieci anni, «segno di una crescente pressione dal basso» sottolinea ancora Salvatori, . E lo certifica la logica reattiva ed anticiclica delle imprese del comparto che nella crisi hanno saputo offrire risposte alle nuove domande sociali e alla richiesta di servizi emersa nei contesti di disagio, povertà e marginalità. Ma se la crisi del 2008 ha dato una spinta al terzo settore, la recessione da Covid-19 rischia ora di produrre l’effetto opposto.
«Il blocco delle attività imposto dall’emergenza sanitaria colpisce tutti e l’economia sociale sarà probabilmente l’ultima a ripartire» conclude Salvatori. «In Italia, inoltre, soltanto le 20mila imprese sociali riconosciute come tali avranno accesso agli aiuti pubblici previsti per le aziende mentre gli altri 330mila soggetti resteranno sostanzialmente scoperti».
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Servono tutele…
E qui si torna alle richieste del terzo settore. Proroga dei contratti e delle convenzioni fino a giugno 2023, coinvolgimento diretto non profit nella ricostruzione post coronavirus, tutela dei lavoratori, adeguamento dei contratti con le amministrazioni pubbliche a quelli collettivi nazionali di lavoro e altro ancora. Basterà? Forse. O forse sarà solo un punto di partenza, perché forte è la sensazione che la lunga fase di ricostruzione implichi anche lo sviluppo di modelli nuovi.
…e innovazione
«Occorre ripensare al welfare. Lo Stato non può tirarsi indietro ma non può nemmeno pensare di farcela da solo» spiega Simone Grillo, ricercatore presso Banca Etica. «La società diventa più complessa e gli stessi bisogni sociali si diversificano aprendo nuovi segmenti di mercato». E ancora: «Oggi assistiamo già a collaborazioni tra profit e no profit, pensiamo ad esempio a forme di welfare aziendale, al ricorso da parte delle imprese tradizionali ai servizi di welfare realizzati dalle cooperative. Insomma, il terzo settore deve innovarsi per potersi espandere». Di questo e molto altro parliamo negli articoli che seguono.