«Per le donne è ancora difficile far emergere la violenza economica»

Non di rado le donne subiscono violenza economica. E i servizi per aiutarle sono pochi. Intervista a Simona Lanzoni, dirigente di Pangea Onlus

Barbara Setti
Simona Lanzoni, vice-presidente di Pangea Onlus. Foto tratta da YouTube (Forum of Mediterranean Women Journalists)
Barbara Setti
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Le forme di violenza sulle donne, ancora oggi, sono molteplici. Tra queste anche quella economica. Le riflessioni di Simona Lanzoni, vice-presidente di Pangea Onlus e, dal 2012 al 2014, vice-presidente di Ritmi, il Network italiano per la microfinanza.

Quella economica è citata dalla Convenzione di Istanbul del 2011 tra le varie forme di violenza. Il testo la descrive dettagliatamente: si realizza attraverso «l’impedimento nell’acquisizione delle risorse, l’impedimento all’accesso alle risorse disponibili, il consumo delle risorse della vittima». In Italia esistono numeri, statistiche in tal senso?

Nell’ambito della violenza sulle donne, in Italia, le rilevazioni risalgono al 2006 e al 2014. Nel 2014 sono il 26,4% le donne che hanno subito violenza psicologica o economica dal partner attuale; il 46,1% da parte di un ex partner. Permangono ostacoli nel misurare quanto incide la specificità della violenza economica, anche perché spesso le donne non la riconoscono! Le forme di violenza, inoltre, sono multiformi e agite contemporaneamente, mescolandosi, per esempio, violenza psicologica/verbale, economica e fisica. La donna che vive tutti questi aspetti tenderà a focalizzarsi solo sulla violenza che riconosce più facilmente dal punto di vista culturale, per esempio calci, schiaffi, ecc.

Quali sono gli strumenti a supporto delle donne?

Sono pochi i servizi specifici offerti per far emergere la violenza sulle donne anche dal punto di vista economico-finanziario. La rete antiviolenza Reama, promossa da Fondazione Pangea onlus, dove lavoro come vicepresidente, offre uno sportello online nazionale gratuito e in presenza su Roma; qui, le donne che ci scrivono o chiamano possono confrontarsi con professioniste formate sul tema della violenza economica che le aiuteranno con un percorso personalizzato.

Per dare un metro di misura, dall’ottobre 2018-2020, su 94 donne prese in carico da Miaeconomia, 88 dipendevano dal partner violento e solo 6 avevano reddito autonomo. Le donne stentano a riconoscere la violenza economica come vera e propria forma di coercizione; per ragioni storiche e culturali e perché più subdola e meno evidente di quella fisica. Questo porta a una sottovalutazione anche nelle sue conseguenze quotidiane ed è molto probabile, quindi, che il sommerso abbia numeri più elevati.

Nel dettaglio, quali sono i fenomeni che si rilevano nei casi di violenza economica?

Quando il compagno spinge la donna a divenire economicamente dipendente, è il momento di fare attenzione. I modi sono tanti: per esempio, mettere la donna davanti alla scelta tra famiglia e lavoro, abbandonando un reddito autonomo o la ricerca di un lavoro; impedire di avere o gestire un conto corrente proprio o la conseguente impossibilità a utilizzarlo, sino a ignorare le risorse economico-finanziarie personali e familiari. Poi ci sono casi estremi di impedimento e controllo totale sugli acquisti; o l’obbligo a fare investimenti rischiosi indebitando la donna, intestando a lei imprese fittizie, oppure dilapidando il patrimonio di famiglia.

Per non parlare dei casi in cui le donne decidono di separarsi ed emanciparsi dal partner. Spesso nelle separazioni l’uomo violento mette in atto strategie vendicative, dallo stalking ai ricatti economico-finanziari sulla donna, per continuare a farla dipendere da lui e non lasciarle il controllo della propria vita.

Si deve tenere presente che mediamente un uomo, a prescindere dall’essere o meno violento, ha una capacità reddituale maggiore di quella di una donna. Questo a causa delle discriminazioni di genere strutturali su cui da sempre è cresciuta la nostra società, anche a livello economico. Ciò non facilita la crescita culturale della nostra società nel comprendere la violenza basata sul genere.

Ascoltando questi esempi, salta all’occhio come siano casi trasversali, che “possono capitare a ciascuna di noi”.

Sì, la violenza sulle donne anche nel suo aspetto economico non dipende dalla classe sociale di appartenenza, né dalle fasce di reddito. Ne sono vittime le professioniste come le casalinghe, donne laureate come le precarie e le disoccupate.

È ovvio che una società come quella italiana, rappresenta un contesto che non contrasta la violenza sulle donne, tanto meno quella economica. Sono elevate le disparità di accesso al mercato del lavoro e il gap salariale (le donne, in media, guadagnano il 20% meno degli uomini); il lavoro di cura famigliare è tutto sulle spalle delle donne. Infatti il 74% delle donne si fa carico del lavoro, non retribuito, di cura e assistenza. In una società, peraltro, fortemente patriarcale in cui, ancora, i soldi sono percepiti come “cose da uomini”.

Parliamo delle competenze delle persone che operano all’interno dei centri antiviolenza. Pensi che abbiano gli strumenti, tecnici ma forse anche culturali, per affrontare con le donne questo tipo di violenza? In sostanza, i centri sono attrezzati?

I centri fanno un lavoro enorme sull’emersione e l’uscita dalla violenza con le donne, ma non sempre hanno strumenti tecnici per lavorare su violenza economica e indebitamento. Non dico che le operatrici dei centri antiviolenza debbano acquisire specifiche competenze finanziarie. Si può approfondire questa problematica prismatica che deve spesso essere accompagnata da persone esperte dell’ambito finanziario e studiare, insieme, un percorso di uscita da questo tipo di abuso.

Esistono esperienze attive sul territorio?

Esperienze stanno nascendo, in Italia, anche progetti europei, per un fenomeno altrettanto grave di altre forme di violenza. Le donne, durante i colloqui, raccontano di un subdolo, costante e sempre più violento senso di sopraffazione, che crea un soffocante senso di vuoto intorno. L’autonomia economica e finanziaria delle donne è alla base del percorso di uscita dalla violenza; ecco perché deve essere un punto fondamentale di questo percorso di empowerment. Il lavoro di recupero è molto complesso, ma possibile, ve lo assicuro.