Il futuro dell’economia sociale? «Meno retorica, più innovazione»
Barbetta (Università Cattolica): «Il terzo settore? Non deve appiattirsi al rapporto con la PA. E lo Stato non deve considerarlo fornitore di servizi low cost»
La crisi colpisce anche l’economia sociale. Ma dalla crisi possono nascere nuove opportunità a patto di credere nell’innovazione. No, non parliamo della solita alternativa Stato/mercato, bensì di un modello più dinamico di welfare. Perché una fase recessiva prolungata richiederà soluzioni nuove, per rispondere alle domande sociali e sostenere una ripresa più solida. Ne è convinto Gian Paolo Barbetta, docente di Politica economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
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Professore, la crisi colpisce il mondo dell’economia sociale. Condivide l’allarme del terzo settore?
Sì ma solo in parte. I soggetti che hanno natura di impresa hanno accesso ai benefici dei provvedimenti governativi e questi soggetti, non dimentichiamolo, coprono buona parte dei ricavi e dell’occupazione del settore. Credo che la crisi non colpisca il terzo settore in quanto tale ma incida in particolare su alcuni comparti, omogeneamente a quanto accade per il resto dell’economia. Pensiamo alla chiusura dei luoghi di cultura, ad esempio, che riguarda tanto operatori non profit quanto soggetti for profit come le gallerie d’arte o le compagnie teatrali. Anche se il problema principale, oggi, riguarda soprattutto i rapporti con i committenti pubblici.
Si riferisce al welfare? Che interventi servono?
Sì, soprattutto nei sistemi di welfare locale si nota oggi una certa tensione finanziaria. I meccanismi di pagamento da parte degli enti pubblici mostrano una certa difficoltà che si riflette nei flussi di cassa del non profitL’orientamento delle organizzazioni che operano con finalità solidaristiche e che si impegnano a reinvestire gli utili nel finanziamento delle attività delle organizzazioni stesse.Approfondisci e dell’eeconomia socialeL’insieme dei soggetti che operano con una visione orientata all’economia civile ovvero perseguendo un obiettivo più ampio rispetto al profitto che, da parte sua, assume un caratteApprofondisci. Servono passi legislativi, iniziative concrete e pratiche per evitare che i comparti più colpiti siano costretti a indebitarsi troppo per far pronte alle esigenze odierne. Lo Stato deve riconoscere le peculiarità dei settori più a rischio, come cultura, welfare e accoglienza, e intervenire a sostegno della domanda e dell’offerta.
Negli ultimi anni i soggetti dell’economia civile, gli operatori dell’economia sociale e del terzo settore insomma, hanno dimostrato grandi potenzialità economiche. Quali sono stati i fattori decisivi?
Occorre fare una premessa: la crescita del terzo settore è legata anche a rilevazioni statistiche più precise, poiché in passato il fenomeno è stato certamente sottostimato. Detto questo dobbiamo considerare che la progressiva trasformazione del sistema produttivo che ha spostato il suo baricentro dalla manifattura ai servizi ha trainato inevitabilmente anche il mondo dell’economia sociale che proprio in alcuni settori di servizi ha un “vantaggio comparato” rispetto al profit.
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Un mondo che ha rafforzato la sua capacità imprenditoriale, si può dire così?
Sì ed è sicuramente un bene. Ci si è accorti che esiste una domanda pagante di servizi e col tempo sono nate nuove nicchie di mercato. Pensiamo all’housing socialeInsieme di interventi abitativi realizzati per garantire l’accesso alla casa a categorie sociali svantaggiate.Approfondisci che si distingue tanto dal vecchio concetto dell’edilizia popolare tanto dal mercato immobiliare tradizionale. Quindici anni fa non esisteva niente del genere.
Puntare sui soggetti dell’economia sociale può essere una via per garantire una ripresa più solida?
La definirei una scommessa possibile. Se non riusciamo a contenere lo shock di domanda generato dalla crisi attuale allora dovremo fare i conti con un impoverimento generale in una fase di stagnazione. Per capirci, io sono tra quelli che immaginano una ripresa a U più che un rimbalzo a V. In questo contesto ci sarà sicuramente lo spazio per sviluppare nuove nicchie di servizi utili per quella fascia della popolazione che sperimenterà un oggettivo impoverimento, non pienamente evitabile neppure con misure fiscali molto generose anche a causa del nostro debito pubblico assai elevato. Ma dipende anche dal terzo settoreL’insieme degli attori economici che si collocano idealmente tra lo Stato e il libero mercato e che svolgono funzioni di utilità sociale.Approfondisci: i suoi soggetti dovranno essere più reattivi.
In che senso?
Il terzo settore dovrà dimostrarsi capace di fare sul serio innovazione sociale. Prendiamo un esempio molto attuale: le case di riposo. Sono strutture costose che, allo stesso tempo, si sono dimostrate fragili di fronte agli shock sistemici, come la pandemia di coronavirus. La vera domanda a questo punto è: possiamo offrire soluzioni diverse a una popolazione che invecchia? Gli operatori dell’economia sociale dovrebbero fare nuove proposte, ma la mia impressione è che in questo campo il comparto sia molto appiattito nel suo rapporto tradizionale con la pubblica amministrazione e nella gestione di un’offerta molto tradizionale di servizi.
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Pensa a un nuovo modello di welfare basato sull’economia sociale?
Serve più coraggio da parte del terzo settore nel progettare soluzioni nuove. Ma occorre anche una pubblica amministrazione capace di considerare il terzo settore come un partner per l’innovazione e non solo un fornitore di servizi a basso costo. A quel punto potrà entrare in gioco anche il mercato che è sempre pronto a cogliere nuove occasioni, anche a redditività relativamente modesta, basti pensare agli operatori dell’impact investingLa strategia che consiste nell’implementazione di investimenti che si ritiene possano avere un impatto positivo sullo sviluppo sostenibile.Approfondisci in campo finanziario. Nell’economia sociale di oggi però fatico a vedere una profonda spinta all’innovazione nella tipologia dei servizi erogati e nelle modalità della loro erogazione.
In passato era diverso?
Negli anni ’80 e ’90 c’è stato un grande impegno ad affermare i diritti in campi trascurati come la psichiatria, le dipendenze e la disabilità. Si sono affermati concetti nuovi e si sono creati servizi che non c’erano. Oggi vedo meno visione e minore capacità di trasformare le idee in progetti, pur in presenza di una accresciuta capacità gestionale. Insomma, il rischio è di fare più retorica che innovazione.