Se il greenwashing contamina anche gli indici ESG
Rating troppo generosi fanno finire anche le banche fossili negli indici ESG: quando la finanza sostenibile è preda del greenwashing
La cavalcata trionfale della finanza ESG (cioè quella che prende in considerazione le istanze ambientali, sociali e di governance) è senza dubbio una buona notizia. Perché fa passare un messaggio ben chiaro: chiunque, dall’asset manager che smuove miliardi al risparmiatore che ha messo da parte qualche migliaio di euro, ha una responsabilità nei confronti del Pianeta. E può esercitarla con le sue scelte di investimento. Ora che pressoché tutti i grandi nomi cercano di salire sul carro della sostenibilità, però, all’orizzonte si profila un rischio molto concreto. Quello di annacquare gli indici ESG fino a farci finire un po’ di tutto, dai fast food alle banche che finanziano il petrolio.
Quando l’ESG diventa un fattore competitivo
Ormai qualsiasi banca o società di gestione del risparmio propone una o più linee di prodotti finanziari ESG. C’è chi lo fa per sincera vocazione e chi, semplicemente, perché sono i clienti a chiederlo. La Global Sustainable Investment Alliance (GSIA), nel suo ultimo report relativo al 2020, parla di un mercato da 35mila miliardi di dollari tra Usa, Canada, Giappone, Oceania ed Europa. Secondo Bloomberg, a livello globale si arriverà a 53mila miliardi entro il 2025: è come dire che un dollaro su tre sarà investito secondo criteri ambientali, sociali e di governance.
A leggere gli studi allarmanti sulla crisi climatica in corso e sulle disuguaglianze che spaccano in due la società, però, c’è qualcosa che non torna. Ad ammetterlo è lo stesso Eurosif, il Forum europeo per gli investimenti sostenibili e responsabili: «Nonostante una crescita astronomica degli investimenti sostenibili e responsabili (SRI) e delle iniziative legate alla sostenibilità negli ultimi anni, la scienza ci dice che le condizioni della Terra sono in peggioramento», scrive nel suo ultimo studio. Lanciando un messaggio ben preciso: non è più sufficiente mettere l’etichetta «sostenibile» sui propri investimenti. Bisogna anche saper garantire che le strategie adottate abbiano un’efficacia tangibile sul mondo reale.
Come vengono composti gli indici ESG
Per indagare su questo apparente paradosso, è il caso di chiedersi come si crea un fondo sostenibile. I colossi della finanza, da BlackRock in giù, spesso e volentieri si affidano agli indici ESG, composti da titoli di emittenti che dimostrano elevate performance ambientali, sociali e di governance. Esistono dunque società che si occupano di assegnare un rating ESG alle aziende, un po’ come fanno le tradizionali agenzie di rating quando valutano la loro solvibilità e solidità. Con una fondamentale differenza.
Le Big Three del rating, cioè Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, bene o male, danno punteggi molto simili o addirittura identici, perché si basano su dati finanziari standardizzati. Al contrario, ogni agenzia di rating ESG usa la sua metodologia proprietaria, i suoi algoritmi e i suoi criteri per passare in rassegna una serie di informazioni non finanziarie che, in molti casi, sono fornite dalle imprese stesse. Di conseguenza, nulla vieta che un’azienda riceva score totalmente diversi a seconda di chi la valuta.
Lo strapotere di MSCI
C’è un nome che domina incontrastato nel campo degli indici ESG: è quello di MSCI. La società newyorkese ha cinquant’anni di storia alle spalle ma ha vissuto la sua vera svolta nel 2019, quando Henry Fernandez – che ne è presidente e amministratore delegato da due decenni – ha annunciato in pompa magna che la sua missione, da allora, sarebbe stata quella di «aiutare gli investitori globali a costruire portafogli migliori per un mondo migliore». Proprio in un momento storico in cui le big della finanza vanno a caccia di opportunità per etichettare come «verdi» e «sostenibili» i propri prodotti, MSCI offre loro esattamente ciò di cui hanno bisogno.
Il business è fiorente, come dimostrano i suoi 1,6 miliardi di dollari di fatturato nel 2020. D’altra parte, si stima che il 60% del denaro investito in modo sostenibile dai risparmiatori sia finito in un fondo costruito grazie agli indici ESG di MSCI. Il calcolo è di Bloomberg Businessweek che, pur essendo indirettamente collegato alla stessa MSCI (la capogruppo Bloomberg LP ne è competitor per alcuni servizi e partner per altri) le dedica un articolo di fuoco.
Premiate le performance ambientali di… McDonald’s
Sulle 500 società statunitensi a maggiore capitalizzazione, ben 155 si sono meritate un upgrade (cioè un aumento di rating) da parte di MSCI tra gennaio 2020 e giugno 2021. I giornalisti di Bloomberg sono andati a controllare questi casi uno per uno. Scoprendone alcuni che destano qualche perplessità.
Tra i promossi per esempio c’è nientemeno che McDonald’s. Nel 2019 ha generato oltre 54 milioni di tonnellate di gas serra, più di Stati come il Portogallo o l’Ungheria. Emissioni che per giunta sono aumentate del 7% nell’arco di quattro anni; per la precisione, calano quelle dei ristoranti (Scope 1) e dell’energia acquistata (Scope 2), ma quelle legate alla filiera (Scope 3) viaggiano su un ordine di grandezza nettamente superiore e continuano ad aumentare. D’altra parte, per portare sul piatto un solo etto di carne bovina si emettono fino a 6 chilogrammi di CO2, contro i 90 grammi di un etto di piselli. E non c’è alcuna altra catena di ristoranti che si avvicini nemmeno lontanamente a McDonald’s, in termini di quantità di hamburger sfornati ogni singolo giorno. Eppure, il gigante dei fast food è stato premiato per le sue performance ambientali, passando da BB a BBB. Cioè perfettamente nella media, su una scala che va da un minimo di CCC a un massimo di AAA.
È troppo facile finire negli indici ESG
Com’è possibile? È la stessa MSCI a metterlo bene in chiaro. Il rating, spiega, «è progettato per misurare la resilienza di un’azienda ai rischi ambientali, sociali e di governance (ESG) a lungo termine del settore». In altre parole, MSCI non valuta l’impatto dell’azienda sul Pianeta bensì l’opposto, cioè l’impatto che le questioni ESG hanno – o avranno – sul suo modello di business. Nel caso di McDonald’s, ha semplicemente ritenuto che l’aumento delle emissioni non incida sul futuro dell’azienda. Escludendolo, così, dal proprio processo di calcolo. Questo meccanismo fa sì che, su tutti gli upgrade esaminati, soltanto uno sia dovuto al taglio delle emissioni. Uno su 155.
Questa è la prima, macroscopica falla messa in luce dall’approfondimento di Bloomberg. Ma non è l’unica, perché il diavolo sta nei dettagli. Tra i criteri per la promozione di McDonald’s, per esempio, c’è anche l’installazione di bidoni per la raccolta differenziata nei ristoranti statunitensi e francesi. Peccato però che siano obbligatori per legge. È qualcosa che capita molto spesso soprattutto nella dimensione della governance, a cui è legato addirittura il 42% degli upgrade. Ben 51 aziende hanno guadagnato punti per aver adottato policy contro la corruzione, procedure antiriciclaggio o altri codici etici con cui – di fatto – non fanno altro che impegnarsi a rispettare le normative vigenti.
Ottimi voti anche per le banche nemiche del clima
Insomma, i voti appaiono un po’ troppo generosi. Anche perché le aziende sono messe a confronto con i competitor del loro settore, partendo dal presupposto per cui la media sia BBB. Nel vocabolario di Wall Street mutuato dalle agenzie di rating, BBB equivale a investment grade, cioè a un rischio accettabile (al di sotto di questo punteggio si ricade negli investimenti speculativi). In pratica è come dare per scontato che l’azienda-tipo meriti a prescindere un “6 politico” in materia di sostenibilità.
Per avere la prova del nove si può svolgere un altro esercizio. Il report “Banking on climate chaos” ci svela che, tra il 2016 e il 2020, sessanta grandi banche hanno concesso 3.800 miliardi di dollari alle compagnie attive nel comparto di carbone, petrolio e gas. Questo dopo la firma dell’Accordo di Parigi con cui la comunità internazionale si è impegnata a mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, facendo tutto il possibile per non superare gli 1,5 gradi.
L’americana JP Morgan Chase, da sola, ha stanziato un terzo di tale somma. Stiamo parlando di 317 miliardi di dollari, il doppio del Pil dell’Ungheria. Ecco, secondo MSCI JP Morgan Chase si merita una bella A ed è in linea con gli obiettivi internazionali sul clima. Promosse anche la seconda e la terza in classifica, Citi (238 miliardi investiti nelle fossili e un rating di A) e Wells Fargo (223 miliardi e un rating di BB), seppure con osservazioni più critiche in merito al clima. Certo, se nemmeno foraggiare le fossili a suon di miliardi è sufficiente, viene da chiedersi cosa si debba fare per essere esclusi dagli indici ESG.