Il rischio idrico mina la solidità delle aziende. E dei loro investitori

Nei grandi progetti infrastrutturali, sono a rischio di svalutazione asset pari a 15.500 miliardi di dollari. Il motivo è il rischio idrico

Il rischio idrico crea stranded assets © Paul Teysen/Unsplash

Siamo sulle Ande, al confine tra Cile e Argentina. Il gigante minerario canadese Barrick Gold acquisisce il giacimento di Pascua Lama, che custodisce quasi 600 tonnellate d’oro e 21mila di argento, e nel 2004 inizia le sue operazioni nella zona. Non ha messo in conto, però, la ferma opposizione da parte dei cittadini, compresi gli indigeni Diaguita.

Gli stranded assets dovuti al rischio idrico: l’esempio della Barrick Gold in Cile

Nella zona infatti scorre il fiume Huasco, da cui 70mila piccoli agricoltori dipendono per irrigare i loro campi. Nel 2013 la Corte Suprema cilena dà loro ragione: le attività estrattive rischiano di contaminare il fiume, e Barrick non ha soddisfatto le condizioni previste dalla valutazione di impatto ambientale a cui era legata l’approvazione del progetto.

La battaglia legale va avanti per qualche anno, per concludersi nel 2020 con una chiusura “definitiva e totale” della miniera. E l’azienda deve fare i conti con una svalutazione pari a 7,5 miliardi di dollari. Questa è una delle storie scelte dai think tank CDP e Planet Tracker per accendere i riflettori su una minaccia tangibile per le aziende, ma spesso ignorata dagli investitori: gli stranded assets dovuti al rischio idrico.  

Cosa sono gli stranded assets

Tradotta in italiano, l’espressione stranded assets suona come beni incagliati, esposizioni tossiche. Si tratta di un concetto che di solito viene usato per smascherare i rischi che nascono quando il modello di business di un’azienda si ostina a restare legato a doppio filo alle fonti fossili. Immaginiamo per esempio che una compagnia petrolifera, in questo momento storico, si metta a trivellare un nuovo pozzo.

È altamente probabile che, nell’arco di qualche anno, vendere quel petrolio diventi impossibile o meno redditizio rispetto a oggi. Questo per motivi economici (crollo del prezzo al barile), fisici (una sempre maggiore difficoltà nei trasporti, anche dovuta alle conseguenze dei cambiamenti climatici) o legali (le normative che spingono la transizione energetica). Di conseguenza, questo asset adesso ha un determinato valore ma è destinato a essere svalutato nel medio termine.

L’acqua, una risorsa inestimabile e in esaurimento

Secondo il report di CDP e Planet Tracker, con il rischio idrico sta succedendo esattamente questo. L’acqua è una risorsa che si tende a dare per scontata. Ma questo è un grave errore, perché nel corso della storia la sua quantità è rimasta pressoché stabile, mentre la popolazione è aumentata e le attività industriali ne hanno fatto un uso sempre più intenso. L’Organizzazione delle Nazioni Unite stima che, andando avanti a questo ritmo, già entro il 2030 bisognerà affrontare una carenza idrica globale del 40%.

Questo è un problema sia per le finanze pubbliche, sia per il settore privato. Qualche esempio? La siccità in California del 2021 ha mandato in crisi la produzione di energia idroelettrica, costringendo lo Stato a importare energia per scongiurare i blackout. E creando conflitti con l’agricoltura, anch’essa bisognosa di grandi quantità di acqua. In Germania, Tesla ci ha messo anni per aprire la sua gigafactory nel Brandeburgo: e ha rischiato di mandare in fumo questo investimento da 5,7 miliardi di dollari anche perché alcune organizzazioni ambientaliste l’hanno accusata di voler esaurire le già scarse risorse idriche della zona.

India siccità
Numerose aree rischiano di trovarsi sempre più spesso a fronteggiare gravi ondate di siccità © Christopher Michel/Wikimedia Commons

Perché il rischio idrico crea stranded assets

Senza un radicale cambiamento di rotta nella gestione di questa risorsa, l’insicurezza idrica aumenterà. E le aziende ne pagheranno le conseguenze. Saranno costrette a interrompere o fermare la produzione nei loro stabilimenti. Saranno coinvolte in dispute legali, con pesanti strascichi per la loro reputazione. Dovranno svalutare – in via temporanea o definitiva – i loro asset collocati in regioni ad alto stress idrico. Dovranno correre ai ripari attraverso investimenti milionari che eroderanno i loro profitti.

Ne sa qualcosa il colosso minerario anglo-australiano Rio Tinto. In Alaska, a Pebble Mine, voleva scavare una miniera di oro e rame a cielo aperto nel bel mezzo della più grande corsa di salmoni rossi sockeye del mondo. Ma è stata costretta a gettare la spugna, dopo l’indignazione espressa da migliaia di persone e le prevedibili difficoltà nell’ottenere i permessi. Sempre Rio Tinto, insieme a BHP Billiton, ha dovuto spendere 3 miliardi di dollari per un impianto di desalinizzazione a Escondido, in Cile. In caso contrario, non ci sarebbe stata acqua a sufficienza per le sue operazioni minerarie nel deserto di Atacama. Restiamo in Cile per un’altra disavventura che ha avuto invece come protagonista Anglo American. Nel mese di gennaio 2020 l’azienda ha dovuto ammettere un calo di produttività della sua miniera di Los Bronces. Il motivo? Mancava l’acqua.

Solo un investitore su tre calcola la sua esposizione al rischio idrico

CDP ha svolto una ricerca su 1.112 società quotate. Il 69% si dice esposto a rischi idrici che potrebbero impattare in modo significativo nel proprio business. Il potenziale impatto in termini finanziari è stimato in 225 miliardi di dollari, mentre il costo per la risposta si attesta sui 119 miliardi. I timori più comuni sono la riduzione della capacità produttiva (44%) e l’aumento dei costi operativi (24%). Allargando la ricerca, gli autori del report arrivano a dire che – già oggi – nei grandi progetti infrastrutturali 13.500 miliardi di dollari di asset si siano già svalutati, e altri 2 miliardi rischino di fare la stessa fine. Per un totale di 15.500 miliardi di dollari di stranded assets.

La domanda è lecita: banche, compagnie assicurative e investitori se ne stanno occupando? Per il momento, sembrano avere altre priorità. Nel 2020 il 37% dei grandi istituti finanziari non calcolava l’esposizione al rischio idrico delle proprie attività finanziarie. Nel 2021 le cose vanno leggermente meglio, perché tale percentuale scende al 33%. Significa comunque che uno su tre rischia di allocare i propri capitali in attività ad alto rischio, senza nemmeno esserne consapevole.