Questo articolo è stato pubblicato oltre 4 anni fa e potrebbe contenere dati o informazioni relative a fonti/reference dell'epoca, che nel corso degli anni potrebbero essere state riviste/corrette/aggiornate.

Un’azione, un voto. Di protesta. Già 14 anni fa

Gruppi religiosi, fondi pensione, club di investitori o battitori liberi comprano azioni per partecipare alle assemblee delle grandi imprese. E dire la loro

Una protesta contro l'apartheid in Sudafrica nel 1980. Nove anni prima, nel 1971 la Chiesa Episcopale americana, per conto di Iccr, votò all'assemblea General Motors per chiedere il ritiro dell'azienda dal Paese africano, dove vigeva la segregazione razziale. la prima vera iniziativa di azionariato attivo negli Stati Uniti.

Quattordici anni fa (era marzo 2005), Valori scriveva la sua prima cronaca dell’azionariato attivo. Un amarcord per capire da dove tutto è partito.

«Come azionisti di Alcoa chiediamo che la paga del direttore generale sia più ragionevole e realmente commisurata ai risultati della società». A firmare questa risoluzione presentata all’assemblea degli azionisti di Alcoa del 2004 sono il Fondo Azionario Cattolico, le Sorelle della Carità di Cincinnati, le Sorelle dello Spirito Santo e di Maria Immacolata e molte altre congregazioni religiose. La risoluzione ottiene il 12,54% dei voti e la notizia gira.

Il direttore generale di Alcoa, leader mondiale nella produzione di alluminio, guadagna 1.365 volte di più del salario minimo degli operai della società mentre la media delle grandi corporation americane è di 625 volte (da 15 a 20 volte in Giappone e Germania). Troppo, anche per le suore azioniste.

Quanti “fat cats”

Negli ultimi due anni risoluzioni analoghe sono state votate nelle assemblee di centinaia di imprese come AOL Time Warner, Cisco Systems, General Electric, JP Morgan, Pfizer e Glaxo, tanto che l’Economist ha parlato di una vera e propria rivolta degli azionisti contro i “fat cats”, i gatti grassi dell’economia mondiale. Jean-Pierre Garnier, CEO di GlaxoSmithKline, ha dovuto rinunciare a una parte sostanziale dei suoi benefit proprio in seguito alle continue proteste degli investitori che, per la prima volta in Gran Bretagna, nell’assemblea del 2003 hanno votato in maggioranza contro il piano di remunerazione dei manager. Le grandi compagnie cominciano a preoccuparsi.

L’attivismo degli azionisti, risvegliato dagli scandali finanziari degli ultimi anni, richiama l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica e mette in pericolo la reputazione delle imprese.

I pionieri

Le suore che hanno votato la risoluzione all’assemblea di Alcoa fanno parte di ICCR – Interfaith Center for Corporate Responsibility (Centro Interreligioso per la Responsabilità d’Impresa), una coalizione internazionale di 275 investitori istituzionali religiosi che comprende congregazioni, fondi pensione, fondazioni e diocesi. Messi insieme gestiscono un patrimonio di circa 100 miliardi di dollari. Da più di 30 anni ICCR, che ha sede a New York, utilizza gli investimenti degli enti religiosi per influenzare le strategie di gestione delle imprese e promuovere la giustizia sociale nelle assemblee degli azionisti.

La prima risoluzione risale al 1971 ed è considerata anche la prima vera iniziativa di azionariato attivo negli Stati Uniti. A finire nel mirino fu General Motors. La Chiesa Episcopale americana, per conto di ICCR, votò per chiedere il ritiro di GM dal Sudafrica, dove vigeva la segregazione razziale. Negli anni successivi oltre 200 imprese americane vennero messe sotto pressione dagli azionisti per lo stesso motivo.

Le risoluzioni, che non raggiunsero mai più del 20% dei voti, riuscirono a influenzare l’opinione di un numero sempre maggiore di persone. Negli anni che precedono la fine dell’apartheid (1994) gli investimenti diretti degli Stati Uniti in Sudafrica crollarono del 50%. “Senza l’azionariato responsabile la lotta contro l’apartheid sarebbe stata molto meno efficace” – spiega Timothy Smith, per 24 anni direttore di ICCR.

«Crediamo che gli investimenti debbano dare qualcosa di più di un ritorno finanziario accettabile. Al posto di vendere le azioni delle imprese che si comportano in modo irresponsabile preferiamo fare pressione per stimolare il cambiamento», così recita la mission di ICCR, che nel 2004 ha sostenuto più di 200 risoluzioni diverse di fronte a circa 155 imprese americane. Un’ottantina sono state ritirate prima della data dell’assemblea perché le imprese si sono dimostrate disponibili ad accettare le richieste o a dialogare con gli azionisti. Si è votato soprattutto contro le paghe eccessive dei manager, contro la discriminazione sessuale sul luogo di lavoro, per la riduzione delle emissioni di CO2 e per promuovere la rendicontazione sociale e ambientale.

Le percentuali di voto variano dal 3,67% ottenuto dalla richiesta ad Altria Group (ex Philip Morris) di un rapporto sui rischi per la salute legati ai filtri delle sigarette al 97,93% con cui ASC Investment, le Sorelle della Carità della Santa Vergine Maria e la Società di Gesù hanno convinto Coca Cola a rendere conto degli effetti economici dell’HIV/AIDS sulla strategia di business della società nei Paesi emergenti. «La diffusione dell’AIDS e di altre epidemie – si legge nella risoluzione – provoca la morte di un gran numero di persone e può ridurre notevolmente la produzione e il consumo complessivi».

La forza dei fondi pensione

Non sono solo gli investitori religiosi a fare le pulci alle imprese. Negli ultimi anni hanno cominciato ad alzare la voce anche i fondi pensione. Negli USA il più conosciuto è Calpers, il fondo dei dipendenti pubblici della California. 1,4 milioni di azionisti, 177 miliardi di dollari di patrimonio e una serie di battaglie contro le malefatte della corporate America, alcune delle quali hanno ottenuto un successo insperato. Tanto che, su pressione delle imprese, il presidente del fondo Sean Harrigan è stato silurato alla fine del 2004 e sostituito da un repubblicano moderato.

Oltre a Calpers si sono fatti avanti altri fondi di dipendenti pubblici, come il New York State Common Retirement Fund, il Connecticut Retirement and Trust Plans o il New York City Comptroller’s Office. «Negli ultimi due anni – così cita il Report 2003 del Forum Investimenti Sostenibili USA – questi fondi hanno promosso decine di risoluzioni sociali basate sulle convenzioni dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), sui cambiamenti climatici e sulle pari opportunità».

Anche in Canada non si scherza. In Québec il fondo pensione Batîrente della Caisse d’économie Desjardins (banca fondata e controllata dai sindacati) promuove da anni campagne per la tutela dei diritti umani all’interno delle assemblee degli azionisti. Batîrente, il cui CdA è composto esclusivamente da rappresentanti sindacali, gestisce 560 milioni di dollari canadesi (circa 346,5 milioni di euro) ha 22mila aderenti e una strategia di investimento che seleziona i titoli in base a criteri di responsabilità sociale. «Finora abbiamo appoggiato risoluzioni organizzate da altri fondi o associazioni – spiega Daniel Simard, coordinatore di Batîrente– ma dall’anno scorso abbiamo cominciato a sperimentare un coinvolgimento diretto».

«Assieme ad Oxfam stiamo convincendo Metro, una catena di distribuzione canadese nella quale investiamo, a vendere caffè del commercio equo. L’impresa si è dimostrata disponibile al dialogo e siamo ottimisti sull’esito delle trattative».

Non è così per Sears, colosso della grande distribuzione. «Abbiamo chiesto a Sears di pubblicare un rapporto sociale che segua le linee guida del GRI (Global Reporting Initiative), ma finora ci hanno risposto picche. Si rifiutano di sottoporre la proposta all’assemblea degli azionisti. Se continua così saremmo costretti a ricorrere alle vie legali», precisa Simard.

La Svizzera che non ti aspetti

In Europa, se si eccettua la Gran Bretagna, l’azionariato attivo è ancora poco diffuso. Nel continente del capitalismo familiare e bancario le borse non hanno mai giocato un ruolo di primo piano. E di conseguenza gli attivisti hanno preferito altre forme di pressione, come il boicottaggio o le campagne di sensibilizzazione. Ma qualcosa sta cambiando.

La novità più interessante arriva dalla Svizzera e si chiama Ethos. Nata nel 1997 su iniziativa di due casse pensione, la fondazione Ethos per l’investimento sostenibile gestisce oggi circa 500 milioni di euro per conto di 90 fondi pensione svizzeri.

8 le linee di investimento, di cui sei azionarie e due obbligazionarie. La gestione è data in appalto ad asset manager come Pictet, Lombard Odier, Vontobel e UBS. Ethos stabilisce i criteri etici di selezione delle imprese, a cui i gestori devono attenersi, ed è delegata dalle casse pensione ad esercitare i diritti di voto nelle assemblee. Escluse dagli investimenti le società coinvolte in armamenti, energia nucleare, tabacco, gioco d’azzardo, pornografia e Ogm, mentre sono promosse le imprese che hanno una sostenibilità ambientale, sociale e finanziaria superiore alla media.

Il mutismo degli altri fondi pensione

«A cosa serve un’ottima pensione se l’ambiente è inquinato e la società destabilizzata?», si chiede Dominique Biedermann, direttore della fondazione, e aggiunge: «visto che garantiscono il futuro, le casse pensioni dovrebbero pensare a lungo termine e investire in aziende sostenibili». Molto spesso Biedermann è l’unico rappresentante degli investitori istituzionali che osa prendere la parola nelle assemblee delle imprese svizzere. Il resto dei fondi pensione rimane muto. «In Gran Bretagna è normale che qualche volta si dica no alle risoluzioni proposte dalle imprese. In Svizzera abbiamo ancora troppo poco coraggio», spiega.

Stipendi eccessivi dei manager, liquidazioni da capogiro, ma anche questioni più sottili, come modifiche statutarie, regolamenti, modalità di voto. Biedermann studia gli ordini del giorno delle assemblee degli azionisti e prende posizione, rappresentando i diritti dei lavoratori che aderiscono alle casse pensione. Nel 2004 Ethos ha votato in più di 100 assemblee di imprese svizzere. Per le società straniere (oltre 250) ha delegato i partner internazionali che aderiscono all’ European Corporate Governance Service.

Anche Swatch nel mirino

Tra le imprese prese di mira l’anno scorso c’è anche Swatch. Nell’assemblea del 27 maggio la società svizzera ha presentato sette nuovi amministratori da eleggere per tre anni. «La scelta era del tipo prendere o lasciare tutti e sette in blocco», racconta Biedermann. «Questo non è plausibile, si deve poter valutare ogni singolo, come avviene per ciascun lavoratore». «Con il solo voto dell’azionista di maggioranza il gruppo Swatch alla fine ha eletto i suoi amministratori. Questo è contrario ad ogni principio di una buona gestione d’impresa». Per il 2005 Ethos ha chiesto che siano presentati due nuovi candidati indipendenti. Il presidente di Swatch ha promesso pubblicamente che accetterà la proposta. Biedermann lo aspetta al varco.

I tedeschi in trincea

Negli Stati Uniti basta possedere 2mila dollari in azioni di un’impresa per proporre una risoluzione. Se la risoluzione ottiene almeno il 2% dei voti può essere riproposta l’anno successivo. Gli azionisti attivi ne approfittano per ingaggiare duelli estenuanti con le imprese che spesso sono costrette a cedere. In Germania le regole sono ben diverse. Per una risoluzione serve il 5% del capitale o 500mila euro in azioni.

È anche per questo che la Coalizione delle Azioniste e degli Azionisti Critici (Dachverband der Kritischen Aktionärinnen und Aktionäre), che riunisce ben 32 associazioni diverse (ambientalisti, pacifisti, antinazisti, consumatori, ecc.) si è specializzata in azioni dimostrative basate su rivendicazioni ad alto impatto che possono essere organizzate anche con una sola azione.

Gli attivisti del Dachverband chiedono di prendere la parola nel corso delle assemblee e una volta davanti al microfono puntano il dito sui comportamenti irresponsabili delle imprese. Le rivendicazioni, che solitamente sono più generiche rispetto a quelle degli attivisti americani, toccano vari aspetti: diritti dei lavoratori, coinvolgimento in armamenti e energia nucleare, indennizzo dei lavoratori forzati impiegati durante il periodo nazista, pari opportunità.

Il linguaggio usato è forte, spesso venato da sfumature ideologiche. Solo per fare qualche esempio, gli amministratori vengono chiamati “Rappresentanti del capitale”, le imprese vengono apostrofate come “Klimakiller” o “Jobkiller”. All’interno della Coalizione ci sono anche gruppi di azionisti specializzati in singole imprese, come il Coordinamento contro i pericoli della Bayer, o gli azionisti critici Daimler-Chrysler e BASF.

Per il 2005 si preannunciano battaglie nelle assemblee di tutte le maggiori imprese tedesche. Thyssen-Krupp e Siemens, che hanno riunito i loro azionisti in gennaio, sono già state servite. Thyssen è stata criticata duramente per la produzione di navi da guerra che sono finite in Iraq e per la mancanza di rappresentanti femminili in Consiglio. Siemens per aver aumentato gli utili solo grazie a licenziamenti di massa e per aver contribuito alla costruzione di nuovi reattori nucleari in Finlandia e in Cina.

Il club degli svedesi

Formare un club di investitori è un’attività molto comune in Svezia. Amici o colleghi mettono insieme i loro risparmi per diversificare l’investimento in azioni. Nel 1993 Lennart Värmby, assieme ad un gruppo di amici decide di fondare Sisyfos, il primo club di investitori critici svedesi.

Oggi ha 32 membri e si batte per la tutela dell’ambiente, le pari opportunità e per relazioni eque con i Paesi in via di sviluppo. «Abbiamo iniziato in dieci – spiega Värmby – partecipando alle assemblee di Sydkraft, una compagnia energetica svedese impegnata in progetti di energia nucleare. All’inizio non avevamo molti soldi, ma riuscimmo comunque a comprare 10 azioni per ogni impresa. Oggi ne abbiamo almeno 100».

Il portafoglio di Sisyfos è composto da 11 imprese, tra cui Volvo, Electrolux e AstraZeneca, per un totale di 2663 azioni. Il patrimonio è pari a 304mila corone svedesi, circa 34mila euro. È poco ma l’idea degli amici svedesi sembra funzionare.

L’Italia ancora indietro

E l’Italia? Da noi l’azionariato attivo è ancora poco praticato. I primi tentativi risalgono al 1989, quando gli “azionisti ecologisti” di Legambiente parteciparono all’assemblea Montedison. A Montedison seguirono Fiat, Enimont, Sme, Sip e in anni più recenti Enel, Eni e Aem. Dopo le assemblee Enel e Eni del 2000 gli ambientalisti del cigno gettano la spugna: l’azionariato responsabile richiede troppo impegno. Ora sono alla ricerca di alleati per rilanciare l’iniziativa con altre forze della società civile.

Il caso più conosciuto di azionariato attivo all’italiana rimane  quello di Beppe Grillo. Nel 1995 partecipò all’assemblea Telecom sfruttando la delega del fratello, piccolo azionista. Grillo, cavalcando il malcontento generato da un contenzioso tra l’azienda e gli utenti, non esitò a definire Telecom un’associazione a delinquere. Parole grosse, prontamente riprese dalla stampa.

Un’opportunità unica per lo sviluppo dell’azionariato responsabile in Italia sarà offerta a breve dalla riforma del sistema previdenziale, che prevede la possibilità di trasferire il TFR nei fondi pensione. Secondo la legge delega che introdurrà la riforma, i fondi pensione dovranno dichiarare «se ed in quale misura siano presi in considerazione aspetti sociali, etici e ambientali nella gestione delle risorse finanziarie così come nell’esercizio dei diritti legati alla proprietà dei titoli in portafoglio». È un’opportunità che non possiamo permetterci di perdere.