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Unicredit: vertici sotto attacco per carbone, Turchia e multe Antitrust

Dagli azionisti critici di Re:Common e Greenpace dure critiche sui fondi alle fossili che stanno devastando il territorio turco. L'irritazione di Mustier

Luca Manes
Luca Manes
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La più importante banca italiana è sotto pressione. E non solo per incombenti pericoli di multe per centinaia di milioni di euro, ma anche per i suoi finanziamenti ai combustibili fossili, oggetto delle proteste e degli interventi di azionariato critico di reti internazionali quali BankTrack e Europe Beyond Coal e organizzazioni italiane come Re:Common e Greenpeace.

Proteste antifossili fin dal mattino

L’assemblea degli azionisti 2019 di Unicredit, che ha approvato il bilancio dello scorso anno, si è tenuta nel cuore del distretto finanziario di Milano, nello storico Palazzo Mezzanotte. Davanti alla sede dell’incontro già dalle 9 del mattino c’era chi esponeva striscioni e chi distribuiva volantini per chiedere uno stop ai prestiti al settore maggiormente responsabile dei cambiamenti climatici, in particolare il comparto carbonifero.

Per esempio in Repubblica Ceca, dove le centrali del miliardario Kretinsky l’anno scorso hanno prodotto 76 milioni di tonnellati di CO2. O soprattutto in Turchia.

Unicredit, infatti, è la banca straniera più coinvolta nel business del carbone turco. Nel 2014 la controllata turca di Unicredit, Yapi Kredi, con il suo partner Koc financial Services, ha concesso due prestiti di 417 milioni di dollari ciascuno alle società turche Limak e IC Ictas. I prestiti erano destinati all’acquisizione delle centrali a carbone, appena privatizzate, di Yenikoy e Kemerkoy, nella regione di Mugla (nord-ovest della Turchia), per una capacità complessiva di 1.050 MW.

Negli anni successivi, Unicredit ha ulteriormente sostenuto Limak con prestiti per 135 milioni di dollari. I due impianti sono stati esentati dalla normativa ambientale e hanno causato gravi impatti sulla salute umana, sull’agricoltura e sull’ambiente. La miniera di lignite Milas-Sekkoy, che alimenta gli impianti, è in fase di espansione e 21 villaggi sono a serio rischio di sfollamento. Un contesto di grande detiorioramento ambientale, raccontato nel nuovo rapporto di Re:Common “Un Paese di Cenere”.

Il vecchio villaggio di Yesilbagcilar, completamente abbandonato dopo il trasferimento forzato degli abitanti. FOTO: Re:Common - Dino Bonaiuto
Il vecchio villaggio di Yesilbagcilar, completamente abbandonato dopo il trasferimento forzato degli abitanti. FOTO: Re:Common – Dino Bonaiuto

I grandi fondi a Mustier: «come affrontate i rischi della crisi climatica?»

In realtà non sono stati solo gli attivisti a mobilitarsi. Vari fondi tra cui Schroders, Candriam e Storebrand, che rappresentano oltre 1.400 miliardi di dollari, hanno preso carta e penna e hanno scritto all’amministratore delegato Jean Pierre Mustier invitandolo a «rivelare pubblicamente come la banca intende affrontare i rischi derivanti dall’aggravarsi della crisi climatica e limitare gli attuali finanziamenti del carbone».

La lettera è stata coordinata dalla rete ShareAction, che nel 2017 aveva intervistato i 15 maggiori istituti di credito europei, riscontrando che Unicredit era l’unica che ancora doveva pubblicare una strategia climatica e una politica contro gli investimenti nel carbone. Una mancanza che, a detta del presidente Fabrizio Saccomanni – già ministro dell’Economia del governo Letta – sarà sanata entro la fine dell’anno, quanto meno per quel che riguarda la polvere nera. «Siamo sensibili alle tematiche ambientali, per questo motivo abbiamo costituito un gruppo di lavoro interno ai più alti livelli che redigerà linee guida sui finanziamenti al carbone e agli altri combustibili fossili».

La risposta di Mustier è stata più piccata e molto enfatica, a dimostrazione che il tema rimane uno dei nervi scoperti di Unicredit, con un lungo elenco dei progetti virtuosi e sostenibili, per un totale di 7,8 miliardi per le fonti rinnovabili e 2,4 miliardi per l’efficienza energetica.

Rimane il ruolo giocato nel comparto dei combustibili fossili e i dati sulla Turchia. A proposito, Unicredit ha perso circa 800 milioni di euro proprio per le vicissitudini capitate a Yapi Kredi.

Lo spettro della maxi-multa Antitrust

Proprio i dati sull’utile netto del gruppo, passati da 5,4 miliardi del 2017 a 3,8 miliardi nel 2018, e il misero dividendo, 0,27 euro, non hanno lasciato troppo ben impressionati vari piccoli azionisti che sono intervenuti in assemblea. Tante le critiche e le rimostranze per il cattivo funzionamento di varie filiali, imputabili a una riduzione crescente del personale (da 91.952 a 86.786 dipendenti negli ultimi 12 mesi).

L’elefante nella stanza, però, sono le multe che la banca rischia di dover pagare. Sanzioni salatissime, come quella che potrebbe ammontare al 10% del fatturato totale che potrebbe essere inflitta a Unicredit da parte dell’Antritrust UE per presunte violazioni della normativa sui titoli di Stato fra il 2007 e il 2012. L’istituto di piazza Aulenti avrebbe creato un cartello con altre banche europee (di cui non si conoscono ancora i nomi, ma si vocifera che tra queste ci potrebbero essere Deutsche Bank e Credit Suisse). Una potenziale mazzata che potrebbe fare il paio con l’ormai scontatta sanzione da oltre 800 milioni di euro che Unicredit starebbe per pagare alle autorità statunitensi a causa di alcune transazioni con Teheran effettuate dalla affiliata tedesca Hvb.

Se del provvedimento dell’Antitrust europeo non si è quasi discusso in assemblea, è stato invece l’argomento principe della conferenza stampa improvvisata tenutasi durante la pausa pranzo. Saccomanni e Mustier hanno cercato di ridimensionare quelle che per il momento sono solo «voci e speculazioni» e che per l’ad evocano la commedia shakespeariana “Molto rumore per nulla”. Nota bene: Mustier disse una cosa simile nel 2017 in riferimento alla Brexit…