«Parità di genere, nelle università c’è ancora molta strada da percorrere»
Negli atenei per le donne resta più difficile fare carriera rispetto agli uomini Intervista a Monica Pratesi, docente dell'università di Pisa
Nelle università italiane per le donne resta più difficile fare carriera rispetto agli uomini. Intervista a Monica Pratesi, docente di Statistica al dipartimento di Economia e Finanza dell’università di Pisa. Dal 2016 al 2020 è stata presidente della Società Italiana di Statistica ed è consigliera dell’Istat.
A fine 2020 il Consiglio Universitario Nazionale del ministero dell’Università e della Ricerca ha redatto un documento che mostra i risultati di un’analisi comparativa dei dati statici per il 2008 e il 2018 relativi alla presenza delle donne nel sistema universitario italiano.
Se dovessimo riassumere in una frase i dati presentati, possiamo dire che in Italia nel percorso universitario il soffitto di cristallo c’è, eccome. Donne e uomini partono con gli stessi numeri (anzi, si laureano più donne che uomini), ma i professori maschi associati e, soprattutto, i professori maschi ordinari, continuano a essere la stragrande maggioranza. Tra gli associati le donne rappresentano il 38% del totale (per il 33% nel 2008), tra gli ordinari il 24% (nel 2008 erano il 19%). Come commenta questi dati, non da osservatrice esterna, ma da strutturata nell’università?
Le percentuali sono aumentate, ma sono ancora troppo basse, è evidente. Forse sono anche frutto di autoselezione, nel senso che forse le donne si limitano da sole nei tentativi di carriera e nella partecipazione ai concorsi.
Non voglio pensare a discriminazioni che addirittura misconoscano il loro merito a vantaggio dei maschi, che pure possono essere presenti nelle università. Voglio piuttosto fornire alcune interpretazioni a questa autolimitazione: un aspetto cruciale penso sia la presenza di politiche di pari opportunità coraggiose promosse nei vari Atenei.
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Le pari opportunità vanno promosse con maggiore forza. Non c’è dubbio. Ci sono molti modi per farlo. Uno di questi è consentire alle donne di migliorare l’equilibrio vita privata/vita lavorativa. Penso ad esempio alla costruzione di asili universitari, alla ricerca di un benessere organizzativo, al supporto psicologico in caso di discriminazioni. Penso anche al modo in cui vengono allocati i finanziamenti e le premialità sull’attività di ricerca. Oggi ancora non prendono nella dovuta considerazione il fatto che la maternità o la cura dei figli possono ridurre la produttività scientifica. Questo è un aspetto scarsamente considerato nei concorsi e nei momenti competitivi della carriera di una donna.
Claudia Fiaschi, ex-portavoce del Forum del Terzo Settore, racconta anche di una reticenza da parte delle donne rispetto al tema della consapevolezza e dell’assunzione di responsabilità, ossia della loro capacità di occupare spazi “di potere”, senza autolimitarsi. Lo riscontra anche in ambito accademico?
C’è un discorso interessante da porre in merito a quanto davvero le donne supportino le altre donne, in ambito universitario. A mio avviso si deve evitare l’effetto “ape regina”: quel fenomeno secondo cui una donna che arriva a occupare posizioni di potere si relaziona con le colleghe dello stesso sesso affidando loro compiti di basso profilo, marginalizzandole, mentre approva e stima i colleghi del sesso opposto. Bisogna stare attenti a questo tipo di profili.
Ci deve essere, in sostanza, una maggiore collaborazione e maggiore fiducia reciproca. Un tema attuale e interessante è l’impatto della pandemia sull’università e una sua lettura di genere: come ha conciliato lavoro a distanza e vita familiare il personale docente e ricercatore? Quali carriere ha rallentato? Al Festival della Statistica e della Demografia il 19 settembre 2021 si è parlato di “ri-generazioni” anche in riferimento alla parità di genere nelle università.
Come valuta le proposte del Consiglio Universitario Nazionale per attenuare queste disparità?
Le indicazioni CUN sono molto ben centrate. Le università devono redigere il Piano di Azioni Positive (PAP) volto a definire azioni per raggiungere la parità di genere e inserirle nel Piano strategico. Devono altresì redigere un Bilancio di Genere, diagnosi del problema e documento cardine da cui partire con le politiche di Ateneo in materia di parità di genere, ricordando che il genere non è solo legato a differenze uomo – donna.
Questo passo in avanti ce lo chiede la Commissione Europea in relazione al raggiungimento degli obiettivi fissati nella Strategia europea per l’uguaglianza 2020-2025 e dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (obiettivo 5). Una indicazione forte come questa certamente smuoverà le acque e creerà le condizioni, per gli Atenei che le sapranno cogliere, di sviluppare politiche coraggiose.
Ritiene quindi utile premiare le Università virtuose nel reclutamento e nel monitoraggio delle carriere?
Sì, è una impostazione che mi convince.
L’Università di Pisa, attraverso il Comitato Unico di Garanzia, ha previsto cinque aree di intervento per il PAP 2021-2023, che riguardano l’equilibrio tra vita privata e lavorativa; la questione dell’equilibrio di genere nelle posizioni di vertice e negli organi decisionali; l’uguaglianza di genere nel reclutamento e nelle progressioni di carriera; l’integrazione della dimensione di genere nella ricerca e nei programmi degli insegnamenti e, infine, il contrasto della violenza di genere, comprese le molestie sessuali. A me questi sembrano punti molto importanti che vanno affrontati con maggiore coraggio e anche abbattendo alcuni tabù. Gli incentivi ci sono. La mancata adozione del PAP, infatti, comporta il divieto di assumere da parte dell’amministrazione del nuovo personale, compreso quello appartenente alle categorie protette.
In generale, preferisco un’ottica di incentivi, a quella delle quote rosa, che sono sempre piuttosto dibattute e controverse.
Ci può fare qualche esempio?
Uno studio pubblicato da un collega dell’università di Pisa su American Economic Review mostra come la presenza delle donne nelle commissioni di concorso non favorisca le candidate donne; dobbiamo quindi stare attenti agli automatismi. Quello che ci vuole è una trasformazione culturale, e una nuova sensibilità. È necessario far diventare il gender gap socialmente inaccettato. Togliere legittimità sociale alle pratiche che discriminano, anche se perfettamente legali; e mettere nell’angolo certe culture maschiliste che non mancano nel mondo accademico.
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Sono solo 7 le rettrici universitarie, a fronte di 77 rettore. Sono nomine recenti, avvenute negli ultimi anni. È segno che qualcosa sta cambiando?
Sì, è importante dare segnali nuovi e dirompenti. Di recente sono state elette quattro rettrici, a Roma, a Firenze, a Padova, alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, e a Ferrara. Anche in altre università a breve avremo le elezioni al Consiglio di Amministrazione. Mi auguro che ci siano molte candidature di donne competenti per permettere una scelta che darebbe un segnale, specialmente negli organi di indirizzo strategico delle università. Raggiungere una equa rappresentatività di genere sarebbe un ulteriore segnale che qualcosa sta cambiando, che ci stiamo finalmente muovendo.
A che serve fare il Bilancio di Genere se poi, nei momenti cruciali, non si fanno le scelte giuste? I segnali danno fiducia, delegittimano il vecchio modello e facilitano l’empowerment nelle categorie sottorappresentate.
Che prospettive ci sono per le donne che vogliono intraprendere una carriera accademica, in particolare nel settore delle Scienze economiche e statistiche? L’area di economia e statistica si presenta, in valori assoluti, pressoché uguale per genere, tra le persone laureate; mentre tra gli ordinari il rapporto è, mediamente, di 4:1, pur mostrando una certa riduzione del divario con il passare degli anni.
Non vorrei pensare che ci sia una resistenza culturale nel nostro Paese verso le economiste. I dati mostrano però un chiaro ritardo nel considerare risorsa importante il capitale intellettuale delle donne. Tra i settori scientifico disciplinari dove lo sbilanciamento tra i sessi è evidente c’è l’Economia. Il dato dell’area di economia e statistica nel Bilancio di genere di Pisa per il 2019 è in linea con il dato nazionale, che è basso. Le Ordinarie sono il circa il 24% del totale. Non si può leggere il dato solo come una autoselezione delle donne verso discipline diverse.
E quindi?
Molte colleghe dell’area sono ferme su posizioni intermedie, non solo perché non riescono a conciliare famiglia e lavoro. Quando si tratta di assegnare e gestire posizioni apicali la resistenza culturale verso le donne può essere ancora forte. Come dicevo prima, l’impegno degli Atenei sia al loro interno sia nella disseminazione sul territorio di una cultura del rispetto e della valorizzazione delle differenze è fondamentale. Le donne si devono impegnare perché sia trovato un equilibrio di genere nelle posizioni di vertice e negli organi decisionali. In questi le donne possono portare il loro punto di vista complementare, utile alla dialettica e alla costruzione di una via condivisa e sensibile alle tematiche di genere.
L’economia, quindi, non è più una cosa da uomini?
Donne competenti nelle posizioni di vertice sono un messaggio chiaro da parte delle Università. Per di colmare il divario di genere nelle discipline economiche, la Società Italiana degli Economisti, recentemente rinominata, giustamente, “Società Italiana di Economia” ha avviato un percorso serio. Ha costituito una commissione di genere, definito le Linee Guida per la parità di genere nell’organizzazione dei convegni, luogo dove le donne, e la loro ricerca, possono ricevere grande visibilità se debitamente considerate.
Infine chiudo ricordando che non va mai dimenticata la missione culturale delle Università: hanno la responsabilità di segnare la strada per un futuro sostenibile e con pari opportunità per l’intera società.