La salvezza delle nostre montagne non passa dallo sci alpino
L'industria dello sci vuole costruire nuovi impianti a quote sempre più elevate. Ma sono investimenti miopi ed antieconomici. Meglio puntare su offerte outdoor alternative
C’è un momento preciso in cui capisci che qualcosa sta cambiando. Ma cambiando davvero. Sei nato e cresciuto pensando che sarebbe sempre stato così, anno dopo anno, stagione dopo stagione, generazione dopo generazione, e poi un giorno ti svegli e capisci che anche la «tradizione» a volte è costretta a cambiare, ad innovarsi. Perché come spiega bene Albert Camus, «girando sempre su sé stessi, vedendo e facendo sempre le stesse cose, si perde l’abitudine e la possibilità di esercitare la propria intelligenza».
Sono nato e cresciuto a Torino con l’orizzonte delle Alpi, tutte le mattine, al risveglio. Bianche d’inverno e verdi d’estate. Appena scendeva la prima neve di novembre, tutti i weekend erano sulle piste della Val di Susa, con fratelli, compagni di scuola, vicini di casa e amici. Praticamente la città, una parte della città, la mia parte della città, si trasferiva a scivolare sulle montagne. 30 anni dopo mi trovo a ragionare allo stesso modo con i miei figli, perché come ho imparato io a sciare è giusto che imparino anche loro, che poi se lo ritroveranno, e non si sa mai nella vita.
Sci da discesa, rito insostenibile
La differenza è che oggi in Italia il clima è cambiato e la neve non c’è più, bisogna crearla per poter portare avanti il rito dello sci da discesa, con costi economici in aumento, per noi sciatori; ambientali e sociali difficilmente sostenibili, per i territori montani. E lo sci da discesa, attività che da sempre mal si accompagna allo sviluppo sostenibile delle montagne, da sport di massa sta scivolando sempre più verso un’attività elitaria. Con buona pace dei miei figli.
L'intervista
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In Italia, tra Alpi e Appennini, abbiamo 219 stazioni sciistiche attive, contando solo quelle con almeno 5 impianti di risalita, tutte sovvenzionate con denaro pubblico, 100 delle quali con il proprio domaine skiable sotto il livello dei 2000 metri di altitudine. Sono sicuramente troppe, molte antieconomiche, mantenute in vita artificialmente per evitare un ulteriore spopolamento e abbandono delle valli su cui insistono. Soprattutto quelle a quote più basse, che vedono ridursi ogni anno i giorni di apertura a causa dei cambiamenti climatici in atto, e hanno di fronte un futuro che sembra segnato.
Sempre più in alto!!!
L’assessore valdostano Luigi Bertschy, amministratore di una regione in cui il core business è ancora lo sci da discesa, attività che ogni anno fa girare circa 85 milioni di euro, all’inizio della stagione 2019/2020 ha dichiarato: «In Valle d’Aosta le quote medie di caduta neve sono al di sopra dei 2.100 metri. Per questo, è opportuno ragionare nella logica di progettare nuovi impianti se possibile tra 2.000 e 3.100 metri».
Maurizio Beria, presidente dell’Unione Montana via Lattea, realtà della Valle di Susa che vive per l’80% di turismo, in prevalenza legato al sistema neve, spiega che «ormai i cambiamenti climaticiVariazione dello stato del clima rispetto alla media e/o variabilità delle sue proprietà che persiste per un lungo periodo, generalmente numerosi decenni.Approfondiscie gli scenari che si prospettano ci impongono di adeguarci». E il primo «adeguamento» è che le società di gestione private non investiranno più un euro nell’indotto neve al di sotto dei 2000 metri. «Stiamo concentrando gli investimenti nel potenziare l’area sopra i 2000, compreso, se ci verrà consentito, attraverso la costruzione di bacini idrici per l’innevamento artificiale».
In buona sostanza, per le grosse stazioni di sci da discesa sopra ai 2000 metri il futuro, in linea di massima, sarà spingere sull’acceleratore della costruzione di infrastrutture, inseguendo un turismo di lusso e la scomparsa progressiva della neve, con un orizzonte temporale di business che potrebbe aggirarsi, in funzione dei diversi casi, dai 10 ai 20 anni. Mentre per molte delle piste al di sotto dei 2000 metri, anche qui facendo le dovute distinzioni, i prossimi 5 anni potrebbero essere fatali.
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Ma allora «la domanda sorge spontanea»: siamo sicuri che l’unica strada per scongiurare la morte di centinaia di località che ospitano stazioni sciistiche sia quella del rilancio o della lenta agonia? Non sarebbe più saggio cominciare a proporre offerte outdoor alternative accanto alle piste da discesa, dal momento che, secondo i dati, calano gli sciatori ma aumentano le persone interessate alle attività sportivo-ricreative nella natura in montagna? Forse è arrivato il momento di rifletterci.
* L’autore è giornalista, ricercatore e videomaker. Si occupa di temi sociali e ambientali e di tematiche legate ai territori alpini. Attualmente dirige l’associazione Dislivelli ed è direttore
responsabile della rivista web mensile Dilsivelli.eu. Tra le sue pubblicazioni: “Avem fach en sumi. Dall’alta Valle di Susa alle Valli Monregalesi 14 coppie raccontano il loro sogno, realizzato, di abitare la montagna”, Chambra d’Oc 2009; “Mamma li turchi. Le comunità straniere delle alpi si raccontano”, Chambra d’Oc 2010; La frontiera Addosso (di Luca Rastello), editori Laterza 2010; Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, Terre Alte-Dislivelli, Franco Angeli; “Via dalla città. La rivincita della montagna”, Derive&Approdi 2017; “Montanari per forza. Rifugiati e richiedenti asilo nella montagna italiana”, Terre Alte-Dislivelli, Franco Angeli Editore 2018.