PTT: il petrolio dei «buoni» che finisce in tribunale
Responsabile di enormi disastri ambientali tra Australia e Indonesia eppure inserito nel FTSE4Good, uno dei principali indici ESG globali. Capita alla società thailandese PPT
C’è anche il petrolio nel FTSE4Good, uno dei principali indici ESG del Pianeta. E che petrolio, verrebbe da dire, visto che il protagonista di questa storia resta un soggetto per lo meno controverso. Ma forse la vera questione è un’altra, e allora la domanda sorge legittima e spontanea. Cosa ne pensano, ammesso che qualcuno glielo abbia spiegato, i coltivatori di alghe e i pescatori del Mare di Timor che da dieci anni attendono un’assunzione di responsabilità di fronte a uno dei peggiori disastri ambientali nella storia delle trivellazioni offshore?
Già, perché qualora non si fosse capito stiamo parlando di PTT Exploration and Production Plc, la compagnia petrolifera di Stato della Thailandia. Un gigante che nell’ultimo bilancio registra un utile netto da 165 miliardi di baht. Ovvero quasi 5 miliardi e mezzo di dollari al cambio attuale. Tuttora sotto giudizio presso il Tribunale Federale di Sydney per lo sciagurato incidente della piattaforma Montara. Il disastro ambientale innescato dieci anni fa al largo delle isole Ashmore and Cartier, nelle acque territoriali australiane, a soli 250 chilometri dall’Indonesia.
74 giorni, 6.000 chilometri di petrolio
L’allarme, secondo la ricostruzione, scatta il 21 agosto 2009 quando nel sistema di estrazione della piattaforma, gestita dalla sussidiaria locale PTTEP Australasia Pty Ltd, si apre una breccia. Tutto il personale viene evacuato sano e salvo ma si capisce da subito che il danno è di quelli pesanti. Il 29 agosto il petrolio fuoriuscito si estende ormai per 180 chilometri. Che diventano 6mila quando l’Australian Maritime Safety Authority rende noti i risultati delle sue rilevazioni. La marea nera è ormai vicina alle coste e ha invaso anche le acque territoriali indonesiane. Il petrolio, ovviamente, ha già ucciso parte della fauna marina. La falla all’impianto viene definitivamente chiusa il 3 novembre alle ore 17.15 dopo che le squadre di intervento hanno pompato nel condotto 3.400 barili di fango per bloccare l’emorragia di greggio e spegnere l’incendio scoppiato due giorni prima.
Petrolio e solventi: la «malattia bianca»
I danni non sono facili da quantificare. Ma gli abitanti di Nusa Tenggara Timur, la provincia dell’Indonesia meridionale più vicina all’Australia, hanno potuto sperimentarne la devastante portata. Prima la moria dei pesci e delle alghe, denuncia l’ALA, l’Associazione nazionale degli avvocati australiani (Australian Lawyers Alliance), poi quella delle mangrovie, barriera naturale che tiene a freno l’intensità dell’oceano. I pescatori e i coltivatori si sono trovati senza lavoro, i villaggi sono stati travolti dalle inondazioni. Poi, come se non bastasse, sono arrivati i primi sintomi del “contagio” umano: dermatiti, intossicazioni e una grande paura per ulteriori patologie nel futuro.
I locali l’hanno chiamata la «malattia bianca», in riferimento alla sostanza schiumosa che ha invaso le acque nei giorni successivi all’incidente.
Un fenomeno legato forse al micidiale miscuglio formato dal petrolio e dai 184 mila litri di solventi utilizzati dagli uomini dell’AMSA, l’Australian Maritime Safety Authority. Tra le sostanze utilizzate, denunciano ancora i legali, anche i famigerati solventi Corexit 9500 e Corexit 9527, capaci di aumentare in maniera esponenziale la tossicità del petrolio. Oltre ad altri composti il cui utilizzo, oggi, non è approvato dalle autorità australiane.
Una società «per bene» da tre anni
Le responsabilità, insomma, non sarebbero solo della corporation thailandese. Ma qui in ogni caso, occorre tornare alla questione iniziale. Possibile che una compagnia responsabile di una maxi fuoriuscita di petrolio e di un conseguente disastro ecologico di simile portata possa essere inserita in un indice di titoli sostenibili? I casi strani nell’universo ESG non mancano, d’accordo. Ma questo pare davvero incredibile. Nel FTSE4Good ASEAN 5, sottoindice asiatico del principale indicatore «progettato per misurare la performance delle imprese che evidenziano solide pratiche in campo ambientale, sociale e di governance» (Sic), PTT ha una presenza di primo piano:
4,38% delle quote per un controvalore di 21,5 milioni di dollari che la rendono la terza public company più rappresentata nell’indice nonché la prima tra le società non finanziarie.
L’inserimento, si diceva, è avvenuto tre anni fa. E forse, chissà, a seguito dell’incidente del 2009, la società di Bangkok avrà saputo cambiare rotta. Quel che è certo, tuttavia, è che il colosso del petrolio non ha ancora fatto tutti i conti con il passato.
PTT in tribunale
«A dieci anni dal disastro la compagnia petrolifera responsabile e la sua ricca controllante thailandese continuano a negare l’impatto devastante che il loro petrolio che ha avuto per mesi e mesi sui coltivatori indonesiani di alghe marine», ha dichiarato Ben Slade, un avvocato di Maurice Blackburn, lo studio legale che si occupa dell’ultimo caso legato all’incidente.
L’azione legale, una class action promossa da 15mila coltivatori alghe indonesiani, è arrivata in tribunale nello scorso mese di giugno. I promotori chiedono un risarcimento di oltre 200 milioni di dollari, circa un decimo della cifra che il governo di Jakarta ha chiesto alla PTT a titolo di risarcimento nel 2017. Nel 2010, riferiscono ancora gli avvocati, una commissione d’inchiesta governativa ha definito il rilascio di petrolio una conseguenza di «errori sistemici».
L’evento, evidenziavano gli inquirenti, «non rappresentava uno sfortunato incidente» quanto piuttosto il risultato di «sistemi e processi carenti oltre che di un personale particolarmente impreparato rispetto alle competenze basilari».
Un disastro, insomma, «che attendeva solo di manifestarsi». Il dibattimento davanti alla Corte di Sidney proseguirà per lo meno fino a dicembre.