Il caso Erg: quel passaggio strategico dal fossile alle rinnovabili

Abbandonare le fonti sporche per quelle pulite è possibile. L'esempio virtuoso di Erg. Una transizione in netto contrasto con le scelte di Eni

Matteo Cavallito ed Elisabetta Tramonto
Le energie rinnovabili sono al centro della transizione ecologica immaginata da Joe Biden © CC0 Creative Commons da Pixabay.com
Matteo Cavallito ed Elisabetta Tramonto
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Abbandonare il fossile riconvertendo il 100% delle attività di produzione di energia da fonti rinnovabili. È l’auspicio più noto degli ambientalisti oltre che di un numero crescente di regolatori e azionisti. Ma gli obiettivi, si sa, sono spesso di lungo periodo e interessano, altrettanto sovente, quote molto parziali del core business. Una chimera, insomma, o poco meno. Eppure, dati alla mano, il settore dell’energia registra già le sue eccezioni.

Tra queste Erg, storica azienda genovese fondata nel 1938 da Edoardo Garrone e passata direttamente dai distributori di benzina ai pannelli solari con un certo riconosciuto successo. Niente giudizi affrettati o elogi di qualsiasi genere: non è il nostro mestiere. Ma qualche considerazione nel merito occorre pur farla. Soprattutto nel confronto con gli altri operatori.

Erg ha completato la transizione alla fine del 2017. Con una potenza installata di quasi 1.900 MW la società genovese è leader dell’eolico in Italia. Foto: Land Rover Our Planet (immagine generica) Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0)

Una produzione 100% da fonti rinnovabili

Il 3 novembre 2017 la società ha raggiunto l’accordo per la cessione al gruppo petrolifero italiano Api dell’intera proprietà della TotalErg, ultimo retaggio dell’età del fossile per la società ligure. L’operazione ha consentito così all’azienda di cedere gli ultimi asset non compatibili con il nuovo corso strategico: 2.600 distributori di carburante, un deposito logistico e una quota pari al 25% della raffineria di Trecate, vicino a Novara.

Da due anni a questa parte, in altre parole, Erg può dirsi a pieno titolo azienda 100% rinnovabili.

La transizione energetica, dicono le cronache, è iniziata undici anni fa
e ha implicato una maxi cessione di asset fossili da 3,3 miliardi di euro. Tra il 2008 e il 2017 l’azienda ha investito quasi 4 miliardi nella produzione energetica puntando quasi esclusivamente sulle rinnovabili prima di completare, come si diceva, l’addio definitivo al comparto oil&gas. I dati sono stati diffusi due anni or sono in occasione dell’ingresso del gruppo genovese nella Fondazione per lo sviluppo sostenibile. All’epoca la società della famiglia Garrone risultava essere il «primo operatore nell’eolico in Italia e tra i principali in Europa con 1.768 MW installati». Ad oggi, segnala l’ultima relazione semestrale, il dato è salito a 1.895 MW. A cui vanno aggiunti i 527 MW garantiti dall’idroelettrico, i 480 del termoelettrico e i 51 circa del solare.

Il nodo degli stranded assets

«Abbiamo scelto di abbandonare progressivamente il settore petrolifero nella convinzione che, nel lungo periodo, quella delle fonti rinnovabili si sarebbe rivelata una crescita inarrestabile e irreversibile», spiegava qualche tempo fa Edoardo Garrone, nipote dell’omonimo fondatore, alla guida dall’azienda dal 2013. Una scelta strategica, dunque, che chiama implicitamente in causa il fenomeno degli stranded assets. Di che parliamo? Essenzialmente dei progetti delle grandi corporation focalizzati sul fossile e, come tali, destinati a svalutarsi in futuro di fronte a un probabile calo della domanda di petrolio et similia a seguito di politiche più severe in campo ambientale.

I rischi sono noti ma molte grandi multinazionali sembrano ignorarli. Lo scorso anno, rileva uno studio del think tank britannico Carbon Tracker Initiative, queste ultime hanno investito 50 miliardi di dollari in 18 megaprogetti in contrasto con gli obiettivi ambientali e che si aggiungono alla massa degli asset oil&gas già controllati. Le perdite previste, sostiene l’indagine, potrebbero raggiungere quota 2,2 trilioni di dollari (2.200 miliardi) da qui al 2030.

ENI e la transizione mancata

Tra le multinazionali “lontane” dalle rinnovabili prese di mira dallo studio britannico spiccano alcune major poco virtuose come ExxonMobil, Chevron, Shell, BP, ConocoPhillips ed Equinor. Ma anche due nomi di particolare rilievo questa storia: l’ex partner di Erg, ovvero la Total, e la principale compagnia energetica italiana, vale a dire Eni. Nel 2018 tutte queste società, rileva Carbon Tracker, avrebbero speso ciascuna almeno il 30% dei propri investimenti in progetti non allineati con gli accordi sulla riduzione delle emissioni siglati dai governi alla Cop21 di tre anni prima. Come se non bastasse, sottolinea ancora lo studio, oltre la metà del potenziale di spesa delle medesime aziende da qui al 2030 sarebbe destinato a progetti nemici del clima: per Exxon si supera il 90%; Eni, la più “virtuosa” del gruppo registra un poco confortante 55%.

Il dato offre nuovo sostegno alle argomentazioni degli azionisti che da tempo criticano la fondatezza della presunta transizione energetica promessa dal colosso italiano. «Il piano strategico 2019-2022 di Eni prevede investimenti per circa 33 miliardi di euro in quattro anni, il 77% dei quali destinato alle tradizionali attività per le fonti fossili», denunciava nel 2018 la Fondazione Finanza Etica intervenendo all’assemblea annuale della corporation. Alle tecnologie rinnovabili, si sottolineava nell’occasione, veniva garantita al contrario una quota marginale: meno del 5%. La produzione globale di petrolio da parte dell’Eni, ha ricordato a settembre Legambiente, ha raggiunto nel frattempo il suo massimo storico, pari a 1,9 milioni di barili al giorno.

Il mondo ESG premia le rinnovabili

Erg, si diceva, ha fatto invece la scelta opposta. E ora può attirare l’interesse degli investitori ESG, tra cui i fondi. Piace la transizione verde, ovviamente. Ma ad essere apprezzate sono anche le modalità dell’operazione.«La transizione verso un modello economico a basso impatto climatico ha sempre un effetto sui lavoratori, che rischiano di perdere il posto. Erg ha gestito la transizione da petrolio a rinnovabili senza impatti negativi sulla forza lavoro», spiega a Valori Aldo Bonati, dell’area ricerca di Etica Sgr, la società di gestione del risparmio di Banca Popolare Etica.

Ad ottobre Gaia Rating, agenzia di valutazione del gruppo Ethifinance, ha assegnato a ERG un punteggio di 78 punti su 100 per l’anno 2019. Un punteggio superiore alla media delle migliori 230 aziende soggette a rating di sostenibilità monitorate dalla società di analisi.