Moda e non solo: le classifiche al servizio del greenwashing

Un bollino etico fa aumentare il valore di un brand. Così fioccano le liste sulla sostenibilità delle imprese. Stilate però con criteri poco credibili

A shy garment worker - Moda e fast fashion, il lavoro nelle fabbriche dell'industria tessile - 2019 © Claudio Montesano Casillas

«Signorina, cosa scegliamo? / È più importante il sangue / o il prezzo delle armi che vendiamo? / Se sa chi sta vincendo / noi, volendo, ci puntiamo. / Ci vuole una classifica... / e poi ci vuole una verifica… / Ci vuole una classifica… scientifica / per sapere chi non merita / si svaluta precipita…». Immaginatevela con la musica (o ascoltatela direttamente). Perché così scriveva Daniele Silvestri in un brano del 2002, La classifica, appunto, decisamente spiritoso e  non banale.

Che la chiamiate all’italiana oppure usiate la parola inglese ranking, vi accorgerete infatti che sul Web fioccano le classifiche e le classificazioni (rating) che prendono in esame le imprese per inserirle in una sorta di pantheon globale dell’etica, della sostenibilità ambientale e sociale, della bontà, dell’innovazione. Pretendendo poi di sintetizzare in un’infografica o in un elenco l’analisi di realtà e dati troppo complessi per farlo. E allora la classifica si fa sempre più virtuale, producendo dei cortocircuiti comunicazionali di cui le corporation possono approfittare per fare green washing.

ELECTRONICS – screenshot dal sito Web di Rank a brand – 16-10-2019

Etica e rating: dalle faccine su Good on you…

Prendete ad esempio un sito come Good on you – con tanto di app scaricabile annessa – tutto dedicato all’abbigliamento e accessori. Un sito il cui claim è «Indossa il cambiamento che vuoi vedere» e che si autodefinisce come «la principale fonte mondiale di valutazioni dei marchi di moda», descrivendo in modo preciso il proprio metodo di valutazione. Per cui alla fine i brand sono rappresentati da una faccina – dalla più sorridente a quella più imbronciata, da “Grande!” a “Da evitare” – con una breve scheda e i link dove trovare o acquistare (!) online i prodotti.

Good On You, emoticon per il rating etico dei marchi dell moda

In definitiva, si arriva ad avere una sorta di vetrina ragionata del settore abbigliamento, in cui tutti i brand hanno però, alla vista, quasi la stessa dignità. E l’elemento che spicca un po’ di più per condannare i peggiori o premiare i migliori è soprattutto quella sobria faccina che ne indica il rating. Il quale viene elaborato a partire dai giudizi di sistemi di certificazione acclarati come Fair Trade, OEKO-TEX and the Global Organic Textile Standard (GOTS). Ma, laddove questi ultimi non arrivano, il sito si affida a un’analisi critica delle informazioni pubblicate dagli stessi marchi. Insomma, un buon lavoro generale, ma che non prevede contatti diretti con i marchi e i lavoratori, e nessuna visita negli stabilimenti di produzione.

Good on you, alcuni marchi a metà classifica nella sezione calzature – 16-10-2019

…a Rank a brand, che chiede l’ok all’azienda prima di pubblicare

In modo simile, ma meno strutturato e consapevole, lavora un’altro sito Internet chiamato Rank a brand. Al suo staff – che nell’occasione ci avvisa di un avviato processo di fusione proprio con Good on you – abbiamo chiesto quale sia la prassi adottata per definire le loro classifiche. Per svolgere un lavoro senz’altro complesso, dal momento che la valutazione non abbraccia solo centinaia di imprese del settore moda, ma anche dell’alimentare, della telefonia, dell’elettronica.

«Otteniamo le informazioni dai siti Web dei marchi stessi – risponde per conto di Bank a brand Ype van Woersem – La nostra idea è che i brand dovrebbero essere trasparenti, in modo che i consumatori possano prendere decisioni informate, con l’aiuto di un’organizzazione che elimina tutte le informazioni inutili. Verifichiamo queste informazioni in parte su siti Web di terzi (organizzazioni ed enti certificatori, ndr) […]

Infine, inviamo le nostre classifiche al marchio, in modo che possa controllare il suo punteggio e migliorare la pubblicazione delle sue informazioni prima che noi le mettiamo on line».

Non solo. «Le classifiche – prosegue van Woersem – vengono effettuate in primo luogo da squadre di due volontari, che si supervisionano a vicenda e dovrebbero avere almeno una laurea. Quando concordano sui risultati finali, inviano la classifica a un verificatore di grande esperienza, per un controllo finale. Quindi il lavoro viene inviato ai marchi, che possono anche fornire ulteriori dettagli o individuare dei dati mancanti».

In sintesi, Rank a brand si affida alla generosità di volontari senza competenze specifiche. E chiede alla multinazionale di turno quasi un nulla osta, dandole l’occasione di rivedere la sua posizione ufficiale. In pratica si confida che il rischio reputazionale la spingerà ad essere irreprensibile nei fatti e nelle parole.

Controsensi mediatici: H&M è campionessa di etica

Visto quanto sopra, è perciò bene approfondire origine e metodo dei vari ranking di sostenibilità. Anche perché non basta che a produrli siano enti e professionisti autorevoli, al di sopra di ogni sospetto, per evitare un risultato finale controverso, e qualche cortocircuito mediatico. Ad esempio, mentre Valori da anni registra e riporta le gravi criticità del settore del fast fashion in tema di responsabilità sociali, diritti dei lavoratori e rispetto dell’ambiente, e spesso in proposito ha citato le problematiche di H&M, il medesimo marchio può vantarsi “legittimamente” in una nota di essere una delle World’s Most Ethical Companies 2019, ovvero parte di un particolare listino che dovrebbe  annoverare le compagnie “più etiche” al mondo.

Fermo restando che per diventare più buoni c’è sempre tempo, la notizia non può non lasciare perplessi. Tanto più se ad H&M si accompagnano Illy, che invece Rank a brand tratta decisamente male, Kellogg’s e Pepsico, citate in analisi di ben altro tenore, Hilton, colosso di un settore turistico dai provati impatti sociali e ambientali negativi. Eppure tutte queste multinazionali compaiono nel listino certificato attraverso un metodo proprietario di valutazione applicato da professionisti. Ad adottarlo è Ethisphere, istituto che chiede alle compagnie una tariffa d’iscrizione da 3mila dollari per essere valutate, e il cui CEO, Tim Erblich, esalta su Linkedin le migliori performance di borsa dei titoli delle World’s Most Ethical Companies rispetto alle altre.

GRAFICO andamento dei titoli a confronto tra compagnie con riconoscimento etico di Etisphere e le altre, 2014-2019

 

Quella volta che Unicredit si è scoperta regina delle rinnovabili

E così, mentre attendiamo le risposte ad alcuni quesiti inviati ad Etisphere, le corporations premiate dal suo rating possono sfruttarlo a fini di autopromozione. E non sono le uniche. Dinamiche del genere accadono anche quando sono coinvolti i big del settore finanziario,  campo dove a contare dovrebbero essere  fatti, numeri e aspettative degli investitori, sempre considerate all’interno del contesto generale. E invece due vicende a cui Valori si è già dedicato in passato sembrano smentire questa prospettiva.

Innanzitutto il caso di un rapporto diffuso da Morgan Stanley su cui avemmo parecchio da ridire. Perché le valutazioni di alcuni marchi blasonati della moda sotto il profilo ambientale, sociale e di governance (ESG) non erano parse avere un fondamento di verifica (come canta Silvestri) adeguato ai mezzi di uno dei principali gruppi bancari d’affari del mondo. Il secondo caso riguarda Unicredit.

Il gruppo italiano veniva infatti citato qualche tempo fa come estremamente virtuoso per la mole di investimenti nelle energie rinnovabili all’interno un rapporto di Moody’s sul coinvolgimento delle banche europee, risultando primo in Italia e secondo solo alla francese BNP Paribas (esposta per 12 miliardi) nella classifica continentale. Da ciò Unicredit guadagnava una forte immagine green, aspramente contestata da parte parte del mondo dell’azionariato critico (BankTrack e Europe Beyond Coal) e delle Ong ambientaliste (Greenpeace e l’italiana Re:Common). Perché è dal documento di Moody’s mancava la considerazione dell’impegno di Unicrediti per le fonti fossili. Un impegno considerato in quel caso assai più caratterizzante.