Troppe aziende “irresponsabili” negli indici di Borsa “responsabili”

Delle 320 società del Dow Jones Sustainability Index World nel 2016 una su 10 non aveva i requisiti Esg per farne parte. Lo rivela uno studio universitario

Nicola Borzi
La sede della Borsa di New York
Nicola Borzi
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Anche gli indici di Borsa dedicano spazio alla selezione di aziende sostenibili. Come il noto Dow Jones che dal 1999 ha creato il Dow Jones Sustainability Index World (o Djsi World), gestito congiuntamente da S&P Dow Jones e dall’agenzia, specializzata in valutazione sui temi della sostenibilità, RobecoSam. Un riferimento fondamentale per i gestori finanziari che vogliano proporre un investimento responsabile.

Come spiegato in questo dossier di Valori, infatti, non esiste una definizione o una metodologia unica e universalmente accettata per identificare le società che possano essere considerate “sostenibili” in base a parametri ESG (Environmental, Social, Governance): ambientali, sociali e di buona gestione dell’impresa. Gli indici di Borsa sostenibili vengono quindi spesso usati come parametro di riferimento dai soggetti che vogliano costruire un portafoglio di investimento responsabile, per selezionare le imprese da includere. Peccato che all’interno di tali indici si possano trovare anche aziende che non sono poi così “sostenibili”.

Lo ha dimostrato uno studio pubblicato il 6 aprile scorso da quattro ricercatori universitari, Iván Arribas, María Dolores Espinós-Vañó e Fernando García dell’Università di Valencia in Spagna, insieme a Paula Beatriz Morales-Bañuelos dell’Università Iberoamericana di Città del Messico, che smonta gran parte dell’allure dell’indice Djsi World.

1 società su 10 del Djsi World è irresponsabile

«L’inclusione delle società socialmente irresponsabili negli indici azionari sostenibili». Questo il titolo, significativo, dello studio dei quattro ricercatori, che hanno analizzato i requisiti Esg delle società inserite nel Dow Jones Sustainability Index a livello mondiale, incrociandoli con le informazioni, relative a ogni società dell’indice, tratte da una fonte ufficiale terza altamente attendibile, il database Eikon di Thomson Reuters. Eikon elabora punteggi per quantificare la sostenibilità delle aziende analizzando gli aspetti ambientali, sociali e di governance utilizzando informazioni pubbliche disponibili delle principali società quotate.

I risultati dell’indagine sono eclatanti: l’indice Djsi World contiene un alto numero di società “socialmente irresponsabili” che, sebbene in chiara diminuzione (-40%) nei sei anni considerati, nel 2016 erano ancora un decimo del totale. Le loro attività “socialmente irresponsabili” – scrivono i ricercatori – ne avrebbero dovuto precludere l’appartenenza al Djsi World.

4.600 grandi aziende coinvolte in gravi controversie

I ricercatori hanno definito “società irresponsabili quelle che sono state coinvolte in scandali legati ad attività come danni ambientali, violazioni dei diritti umani, corruzione. Le aziende che conducono tali attività non dovrebbero mai essere definite come etiche, sostenibili o socialmente responsabile e non dovrebbe diventare componenti di un indice azionario sostenibile”.

Ma, anche guardando il database di Eikon di Thomson Reuters nel suo complesso, al di là dell’analisi del Dow Jones Sustainability Index, le conclusioni dell’analisi dei ricercatori sono sconcertanti. Il database analizza ogni anno più di 7mila società quotate in tutto il mondo (le più grandi in termini di capitalizzazione di mercato). I ricercatori le hanno classificate in base alle controversie in cui sono coinvolte: durante il periodo esaminato nella ricerca (2011-2016), 4.604 di queste aziende sono state coinvolte in almeno una controversia. Nel 2016, più di 3mila azioni controverse sono state commesse da oltre mille delle 7mila società analizzate dal database.

La crescita del numero delle controversie e delle società coinvolte (Eikon Thomson Reuters)

Il problema del metodo “migliore della classe”

Tornando al Dow Jones, gli autori si sono chiesti come sia possibile che le metodologie di screening abbiano commesso simili errori, promuovendo imprese irresponsabili. La risposta per gli analisti sta nel fatto che l’indice Djsi World «valuta le prestazioni di sostenibilità delle principali società quotate applicando criteri economici, ambientali e sociali attraverso la metodologia “migliore della categoria”, selezionando quelle società che soddisfano determinati criteri di sostenibilità meglio di altre aziende dello stesso settore. Questo dettaglio è fondamentale: le società non sono selezionate a causa delle loro azioni socialmente responsabili in termini assoluti ma, una volta soddisfatti determinati criteri, in base al loro comportamento relativo rispetto ai loro pari. Questa metodologia implica anche che non vi siano criteri di esclusione: non esistono specifiche pratiche irresponsabili o illegali che implicano che una società venga automaticamente espulsa dall’indice».

Come seleziona le aziende il Dow Jones Sustainability Index?

Il processo di selezione delle circa 320 aziende incluse nell’indice DJSI World è piuttosto complesso. Un fattore decisivo per inserire una società nell’indice è il cosiddetto Punteggio totale di sostenibilità (Tss) calcolato da RobecoSam nella sua analisi annuale delle società, chiamata Valutazione della sostenibilità aziendale (Csa). Ogni anno RobecoSam invita le 2.500 maggiori società mondiali in termini di capitalizzazione di mercato dell’indice S&P Global Bmi a partecipare al Csa: invia un questionario con 80-120 domande, a seconda dei 59 settori di classificazione delle società. Il questionario raccoglie informazioni sulle attività economiche, ambientali e sociali dell’azienda per analizzare i fattori di sostenibilità che potrebbero avere un impatto sul potenziale di generare valore a lungo termine.

Per garantire la corretta diversificazione all’interno dell’indice, vengono presi in considerazione criteri di appartenenza geografica e settoriale delle società.

I settori più controversi

A livello settoriale, i quattro comparti con il maggior numero di aziende con controversie nel periodo sono il bancario, metalli e miniere, petrolio e gas, telecomunicazioni. Non tutti i settori vedono un calo delle società “irresponsabili”: quelle dei settori bancario e metallurgico e minerario si stanno gradualmente riducendo nel Djsi World, con un calo rispettivo del 51% e 44% a fine periodo rispetto al 2011.

Ma nel caso dei settori petrolifero e del gas e delle telecomunicazioni, il 2016 si è chiuso con un numero di società “inadatte” a livelli simili a quelli del 2011. I ricercatori ne deducono che “il processo di selezione utilizzato da Djsi World sembra in qualche modo più rigoroso in alcuni settori, mentre altri sono gestiti con maggiore flessibilità”. Inoltre le percentuali di “aziende controverse” incluse nell’indice variano notevolmente a seconda del tipo di controversia: le aziende con controversie sui diritti umani erano particolarmente elevate.

Dove?

Lo studio ha incluso un’analisi regionale che considera l’area geografica e la nazionalità delle società del Djsi World per scoprire se le società sono trattate in modo diverso in base alla loro posizione geografica o nazionalità. Risultato: i 10 Paesi con il maggior numero di “aziende controverse” presenti nell’indice durante il periodo esaminato erano Germania, Australia, Canada, Cina, Corea del Sud, Francia, India, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. Ma per i ricercatori «il trattamento per Paese non è omogeneo. La politica di diversificazione geografica nell’indice ha un impatto sulla selezione delle società».

La percentuale di società controverse incluse nell’indice varia notevolmente da un Paese all’altro. I Paesi con la più alta percentuale nel 2016, e anche per tutto il periodo, sono Germania e Francia, seguiti dal Regno Unito. In altre parole, sono paesi europei. I Paesi con meno controverse compagnie all’interno dell’indice Djsi World sono asiatici: Cina, India, Giappone e Corea del Sud. Gli Usa hanno una percentuale di società controverse sorprendentemente bassa, la più bassa tra i Paesi anglosassoni.

«Questo ci porta a pensare che la politica di diversificazione geografica, la necessità di includere un numero minimo di aziende per ciascuna regione, influenzi in modo decisivo la selezione delle aziende. Poiché gli Stati Uniti hanno un gran numero di aziende globali, ben diversificate tra tutti i settori industriali, è facile scartare le società controverse. Al contrario, i Paesi europei non hanno una gamma così ampia di opzioni».

Entrare nell’indice aumenta il valore dei titoli

Ma perché le società hanno tanto interesse a entrare nell’indice Dsji, al punto di pagare chi può aiutarle nel percorso di selezione? Lo spiega un documento pubblicato a gennaio 2018 da Kpmg Oy Ab, società finlandese affiliata al network mondiale del gigante della consulenza e revisione contabile, che, propone servizi a pagamento per compilare il questionario Robeco, per «migliorare la performance di sostenibilità dell’impresa e preparare a rispondere alle necessità informative degli investitori che considerano i criteri Esg».

Le motivazioni per tentare di entrare nell’indice sono finanziarie: le società che stanno negli indici di sostenibilità sono ritenute migliori dai mercati, quindi le loro azioni riscuotono più interesse. Secondo la società di consulenza, «sostenibilità e reputazione, tra gli altri fattori, contribuiscono al valore degli asset intangibili. E gli investitori cercano aziende in grado di massimizzare il valore dei loro asset intangibili».

Ma non basta: secondo Kpmg «la mancanza di controllo dei consigli di amministrazione sui rischi Esg ha causato un gran numero di eventi di crisi aziendale. Le società che possono dimostrare una forte performance Esg e un buon risk management indicano ai mercati che sanno come gestire le crisi societarie e reputazionali».