La svolta etica del capitalismo USA? È una bella fake news
Retorica, libero mercato e zero proposte. Da Amazon e soci la svolta del capitalismo sostenibile dei big di Wall Street non convince. Ecco perché
Un capitalismo etico a misura di tutti: lavoratori, fornitori, ambiente e comunità. Non solo gli azionisti dunque, storico punto di riferimento per gli obiettivi di impresa. Sarebbe questa, in apparenza, la grande svolta della corporate America, il gotha aziendale USA della Business Roundtable, associazione che da quasi mezzo secolo riunisce gli amministratori delegati delle maggiori società a stelle e strisce come JPMorgan, Amazon, Apple, Bank of America e General Motors.
Tutto è contenuto nella nuova dichiarazione di principi redatta per l’occasione. Un aggiornamento epocale, verrebbe da pensare, della linea sostenuta per 22 anni – ovvero dalla dichiarazione del 1997 – che garantiva agli shareholders un ruolo prioritario. «Ogni portatore di interesse è essenziale» si legge nel documento; «Ci impegniamo a generare valore per tutti loro, per garantire il successo alle nostre compagnie, alle nostre comunità e al nostro Paese». Sarà svolta?
«Un capitalismo più inclusivo». Ma zero proposte concrete
181 Ceo, in rappresentanza di altrettante imprese che impiegano 15 milioni di dipendenti per un fatturato complessivo da 7 trilioni di dollari. Se fossero una nazione sarebbero la terza economia del mondo. Normale che le parole pesino. Ed è altrettanto normale che una dichiarazione così discontinua rispetto a due decenni di dogmatismo pro azionisti rappresenti, sulla carta, una svolta culturale. Ma da qui a parlare di nuova fase del capitalismo ce ne passa eccome. E non solo perché nel documento non si scorge l’ombra di una sola proposta concreta.
Lo si intuisce anche raccogliendo le reazioni, tutt’altro che unanimi, degli osservatori privilegiati. C’è chi, come l’ex presidente del Global Development Council dell’amministrazione Obama, Mohamed A. El-Erian, oggi chief economic advisor del colosso Allianz, ha parlato di «svolta importante». Un cambio di rotta, ha proseguito, «che riflette il crescente consenso attorno all’importanza di un capitalismo più inclusivo». Larry Summers, ex Segretario al Tesoro durante la presidenza Clinton, tuttavia, la vede diversamente: «Temo – ha dichiarato al Financial Times – che la retorica dei portatori di interesse rappresenti in parte una strategia per tenere alla larga le necessarie riforme fiscali e regolamentari».
Lo Stato e la politica sono i grandi assenti
L’ipotesi non appare certo fantascientifica. Scorrendo il documento dei Ceo, infatti, si scorgono diffusi riferimenti a un quintetto base di azionisti, comunità, dipendenti, fornitori e clienti. Ma nessun richiamo allo Stato, la politica, i legislatori e i regolatori. Accanto ai proclami sulla «creazione di valore», «gli investimenti sui lavoratori», «il sostegno alle comunità» e «il rapporto etico con i fornitori», insomma, non vi è traccia di alcuna delega a quegli attori che si collocano al di fuori della tradizionale catena di produzione e consumo.
Il sospetto, quindi, è che anche questa nuova visione di «capitalismo compassionevole» – il virgolettato è nostro – nasca vecchia quanto il suo preambolo che ribadisce ancora una volta la fede nel «libero mercato come il migliore strumento per generare lavori di qualità, una forte economia sostenibile, innovazione, un ambiente sano ed opportunità economiche per tutti» (il virgolettato è loro).
Il salario minimo secondo Amazon
In pratica è come se l’onere del cambiamento fosse affidato alle maggiori imprese. Un’avanguardia rivoluzionaria del capitalismo chiamata a scrivere da sola le regole del gioco. Un sistema obiettivamente poco affidabile. Nel novembre del 2018 Amazon ha alzato il salario minimo dei suoi dipendenti negli USA a 15 dollari l’ora. Un’iniziativa che ha certamente giovato all’immagine della multinazionale simbolo della cosiddetta gig economy, con tutto il suo corollario di precarietà e sfruttamento.
Ma l’operazione, paradossalmente, si è ritorta contro gli stessi lavoratori. Business Insider ha fatto loro i conti in tasca e ha scoperto a sorpresa che in alcuni casi gli introiti erano addirittura diminuiti. Il colosso dell’e-commerce guidato da Jeff Bezos, in pratica, aveva sì alzato la paga oraria ma aveva anche ridimensionato l’accesso ai bonus e alle stock options dei dipendenti.
Perché allora continuano con il buyback?
Sul tavolo delle questioni aperte, infine, c’è proprio il ruolo degli azionisti. Per almeno un paio di decenni la loro centralità è stata ben rappresentata dall’abnorme attività di buyback, le operazioni di riacquisto dei titoli sul mercato che spingono al rialzo il valore delle azioni stesse.
Fino al 1982 la strategia era considerata manipolatoria e per questo era vietata. Poi il via libera della SEC e con esso valanghe di plusvalenze azionarie. La politica monetaria espansiva post crisi ha favorito il fenomeno e i tagli fiscali di Trump lo hanno ulteriormente esasperato.
E oggi? Nonostante le buone intenzioni le maggiori società quotate sembrano preferire ancora una volta il porto sicuro della speculazione: non diversamente da quanto fatto nel 2018, quest’anno i big di Wall Street spenderanno più soldi per riacquistare le proprie azioni di quanti ne impiegheranno per espandere il business tramite gli investimenti.
Secondo Goldman Sachs, le operazioni di buyback negli USA per il 2019 dovrebbero raggiungere i 940 miliardi di dollari, il 13% in più rispetto all’anno precedente.
Perché fanno lobby per limitare gli azionisti attivi?
Ma non tutti gli azionisti possono esultare. A scontrarsi con gli interessi delle grandi aziende saranno ancora una volta gli esponenti dell’azionariato attivo, che su ambiente, diritti e corporate governance, si sono mossi con largo anticipo rispetto alle dichiarazioni di intenti delle major USA.
È stata proprio la Business Roundtable, ha scritto ancora il Financial Times, «a condurre di recente attività di lobbying per indebolire l’attivismo degli azionisti. Nel mese di giugno, il gruppo ha chiesto alla SEC di alzare la quota minima (di titoli detenuti, ndr) per la presentazione di una proposta in assemblea, una mossa che limiterebbe la capacità degli attivisti di sollevare questioni come il cambiamento climatico o la retribuzione dei dirigenti». Per essere un capitalismo di svolta sa tanto di déjà vu.