«Sul clima la battaglia non può essere vinta senza regole sui mercati»
Cambiamenti climatici, ripresa, Pnrr, mercati. Intervista ad Andrea Roventini, docente di Economia alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa
La battaglia contro i cambiamenti climatici «è come una guerra». Per questo «non possiamo permetterci di affidarci unicamente ai mercati». Il capitalismo può essere compatibile con il contenimento del riscaldamento globale «solo se governato e regolato». Andrea Roventini – docente di Economia presso la Scuola Sant’Anna di Pisa – spiega in che modo il sistema produttivo può adattarsi ai cambiamenti climatici. Cogliendo le opportunità che questi offrono.
La transizione ecologica comporterà investimenti importanti: di quanto abbiamo bisogno per raggiungere gli obiettivi indicati dalla comunità internazionale?
L’Energy Transitions Commission in Inghilterra, presieduta Adair Turner, ha indicato che il costo per azzerare le emissioni nette di CO2 non supererà il 2% del Pil mondiale. Non si tratta dunque di un fardello così elevato come spesso si afferma. Ma non vanno valutati solo i costi: si deve tenere presente che i benefici supereranno di gran lunga i sacrifici.
«Per salvare il clima basta il 2% del Pil mondiale. E i benefici saranno ben superiori ai sacrifici»
C’è dunque modo di evitare un impatto sociale troppo elevato.
Dobbiamo tenere presente che se non interveniamo ora per rispettare gli obiettivi indicati dall’Ipcc – nel caso dell’Europa, abbattendo del 55% le emissioni di gas ad effetto serra entro il 2030 e azzerando quelle nette entro il 2050 – andremo incontro ad un aumento della temperatura media globale di almeno 3 gradi centigradi. Il che comporterà costi inimmaginabili rispetto agli 1,2 gradi attuali. La cronaca recente in Europa ce lo dimostra.
Transizione ecologica
Come creare 65 milioni di posti di lavoro? Basta salvare il clima
Uno studio della Global Commission on the Economy and Climate ha quantificato i vantaggi economici e sociali della salvaguardia del clima.
Le analisi empiriche che abbiamo condotto alla Scuola Sant’Anna di Pisa dimostrano che i costi economici degli eventi atmosferici estremi sono già aumentati. Soprattutto nei Paesi sviluppati. Stanno già crescendo. Se invece limiteremo l’aumento a 1,5-2 gradi, da un lato conterremo i fenomeni disastrosi, dall’altro potremo centrare importanti opportunità economiche, soprattutto in Italia.
Quali?
Possiamo investire in nuove tecnologie e nuove industrie verdi. I cambiamenti climatici imporranno cambiamenti strutturali in economia. Ad esempio nel settore delle fonti fossili. Ma con gli investimenti giusti potremo riposizionare le nostre imprese in mercati ad alto valore aggiunto e svilupparne di nuove. Creando nuovi posti di lavoro e rilanciando la crescita della produttività e del Pil e risolvendo così uno dei problemi endemici del sistema italiano. Il Green New Deal è un’occasione da non sprecare.
«Con gli investimenti giusti potremo riposizionare le nostre imprese in mercati ad alto valore aggiunto e svilupparne di nuove»
Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani sostiene che a salvarci sarà l’innovazione.
Sono d’accordo, è il processo virtuoso che ho appena descritto. Per innovare servono investimenti pubblici e una politica industriale per decarbonizzare l’economia. Innovare però non basta. Come ci ricorda il Fondo Monetario Internazionale, serve anche aumentare il costo delle emissioni di gas serra, ad esempio introducendo una carbon tax.
Cingolani ha spiegato che la proposta dell’Unione europea di bloccare le vendite di auto a motore termico nel 2035 è sbagliata. È d’accordo?
Non sono per nulla d’accordo: quando Cingolani parla di “bagno di sangue” dimostra una comprensione superficiale del problema. Se si seguisse la linea attendista del ministro, si danneggerebbe il settore automobilistico italiano, ponendolo fuori mercato. Mercedes e Volkswagen, che controlla la Lamborghini, hanno già annunciato che smetteranno di vendere auto con motori termici entro il 2030. Le case automobilistiche italiane, comprese eccellenze come la Ferrari e la Maserati, devono fare lo stesso.
In quali altri settori occorrerà investire?
Principalmente nelle nuove tecnologie, e in particolare nel settore delle rinnovabili. In Italia abbiamo esempi virtuosi. Ad esempio, Enel produce a Catania pannelli fotovoltaici di ultima generazione. Saipem è leader mondiale nell’eolico offshore galleggiante. Terna e Snam investono nel potenziamento della rete elettrica e nelle tubazioni per idrogeno. Al contrario, Cingolani ha di recente proposto incentivi per sostituire auto a motore termico con altre auto a motore termico di ultima generazione. Si tratterebbe di un sussidio costoso e che comporterebbe vantaggi minimi in termini di emissioni di CO2. Queste politiche non stimolano l’innovazione e rallentano la transizione anziché anticiparla.
L’Italia rischia di rimanere indietro?
Guardiamo alle centrali a carbone. Si era detto di chiuderle entro il 2025 e già si parla di procrastinare la data. Ma anche aziende come l’Ilva devono riconvertirsi. Certo non si può passare all’idrogeno verde domani, ma lo Stato è tornato nel capitale dell’azienda, per cui si deve innovare e sviluppare questa nuova tecnologia per la produzione che risolverebbe l’odiosa scelta tra lavoro e salute di Taranto. Queste politiche industriali sono molto più utili rispetto, ad esempio, al superbonus del 110%.
Il superbonus non la convince?
No. È un intervento molto costoso che avrà un impatto limitato sulle emissioni di gas ad effetto serra. Ad esempio, per ottenerlo basta migliorare l’efficienza di due classi energetiche. Anche se il livello iniziale è “G”, il peggiore. Un intervento sull’edilizia pubblica, sulle scuole o sulle case popolari è meno costoso. E avrebbe liberato risorse per politiche industriali e di innovazione.
All’ultimo G20 si è esultato per i risultati ottenuti ma sull’addio al carbone e sul mantenimento della temperatura media a 1,5 gradi entro il 2030 non c’è stato accordo.
Nei prossimi giorni arriverà la prima parte del nuovo rapporto dell’Ipcc ed è molto probabile che ci dica che stiamo sottostimando le conseguenze dei cambiamenti climatici. Saremo tutti costretti ad un bagno di realtà. La mia paura è che sia già troppo tardi.
«La transizione ecologica va anticipata, altrimenti si porrà l’Italia fuori dai giochi»
La finanza continua a concedere enormi quantità di denaro alle fossili. Il sistema capitalista è compatibile con la salvezza del Pianeta?
Non se lasciato a sé stesso, immaginando che i mercati siano in grado di auto-regolarsi. Serve un indirizzo pubblico molto stringente, al contrario. Detto ciò, nella finanza qualcosa si muove, a livello di banche centrali ad esempio. Si discute di quantitative easing e regolamentazione macroprudenziale verdi. Ma il capitalismo selvaggio ha dimostrato di non saper gestire grandi crisi come quella legata alla pandemia. Lo stesso vale per il clima.
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Occorre anche superare la logica del breve termine, che inchioda molte aziende e istituti finanziari al business as usual?
Il problema viene da lontano: dobbiamo superare la balzana idea di Milton Friedman secondo il quale l’unico obiettivo sociale delle imprese è fare profitti. Per molte di esse certi business diventeranno presto degli stranded assets. È il caso delle miniere di carbone o dei pozzi di petrolio. Però comincia ad esserci una maggiore consapevolezza da parte di imprese e settore finanziario. Il rischio è che il cambiamento sia troppo lento. Oltre alle banche centrali, fondamentale sarà l’apporto delle banche pubbliche d’investimento. Lo abbiamo visto con lo sviluppo delle energie rinnovabili in Brasile, Germania e Cina. L’Italia dispone di un golem: la Cassa Depositi e Prestiti italiana deve passare da una logica di gestione puramente finanziaria ad una industriale.
A livello internazionale però il ruolo dello Stato sembra tornato centrale, anche con Biden negli Stati Uniti. È la fine del liberismo?
Potrebbe essere così. Non a caso il Financial Times e il Wall Street Journal discutono della Bidenomics, nella quale lo Stato ha un ruolo rilevante nel promuovere la crescita economica. Oggi siamo in guerra, contro i cambiamenti climatici e contro il coronavirus. In guerra non possiamo affidarci al mercato. Se lo immagina Churchill che durante la Seconda guerra mondiale affida al mercato la costruzione di caccia per la sua aviazione? Avrebbe steso un tappeto rosso all’aviazione nazista. Nello stesso periodo, l’intervento pubblico negli Stati Uniti creava da zero l’industria degli antibiotici. Biden sta dimostrando che il vento cambia. L’Europa però appare indietro: lo abbiamo visto con i vaccini, mentre gli Stati Uniti con l’Operation Warp Speed intervenivano in ogni fase della produzione, l’Unione europea ha seguito le logiche del mercato. Cercando di siglare il migliore contratto possibile con AstraZeneca.
«L’Eni deve diversificare se vogliamo centrare gli obiettivi sul clima, come qualsiasi industria petrolifera»
Qual è il futuro di Eni?
Dobbiamo azzerare le emissioni nette entro il 2050. Perciò, l’industria petrolifera deve uscire dalle fonti fossile e investire nelle rinnovabili. Se Eni giocasse d’anticipo, potrebbe mantenere il suo ruolo di leadership mondiale nel settore energetico. Enel si è mossa molto velocemente nel settore green, mentre Eni mi sembra ancora riluttante a cambiare la propria strategia industriale.
Si parla spesso di mitigazione dei cambiamenti climatici, eppure anche l’adattamento offre opportunità di business…
Da anni dico che l’Italia deve combattere i cambiamenti climatici non solo in termini di mitigazione. Siamo il Paese europeo a più alto rischio idrogeologico. E il Sud alla fine del secolo rischia la desertificazione. Investire in misure di adattamento stimola l’economia nel breve termine e nel medio e lungo periodo previene costi insostenibili e può essere un’altra occasione di innovazione e sviluppo industriale.