La scomoda verità del coronavirus: siamo davanti a una crisi di paradigma
La recessione innescata dal Covid-19 non sparirà rapidamente. Apre anzi uno spazio di riflessione che creino approcci economici capaci di evitare gli errori del passato
La sensazione è quella di una crisi epocale di cui ogni giorno troviamo una nuova conferma. Si potrebbe definirla “crisi di paradigma” che richiama l’essenza, la struttura e le istituzioni del capitale (il governo dell’economia), cioè una crisi del “fare” e una crisi del “pensiero”. Poco importa che si enfatizza la stretta dimensione economica o la sua controparte politica: è l’assenza di un orizzonte il metro della sconfitta, segno del nostro navigare a vista. Questa è la percezione diffusa degli effetti del coronavirus.
L’assenza di un Roosvelt europeo
Non è la prima volta che accade, ma questa crisi è più difficile da sciogliere, e probabilmente non solo perché è quella più prossima. Sebbene il capitalismo evolva, nella crisi ricostruisce sé stesso su nuove fondamenta, ma ciò non risolve l’incertezza per il futuro. Purtroppo non abbiamo un Roosevelt europeo e/o mondiale, né una controparte coerente sul piano teorico (Keynes). Questo modello è forse entrato in crisi nel 2007, e con il coronavirus del 2020 non è detto che abbia ricevuto il colpo di grazia. Alcuni credono che stiamo vivendo una crisi che ha un colpevole (coronavirus), passato il quale tutto ritornerà come prima, ma, probabilmente, stiamo vivendo la Storia.
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Il problema dei poteri “ignoranti”
Il re è nudo? Se questa è la sfida della società moderna, in netto contrasto con la società post-moderna, tutti i soggetti sociali dovrebbero misurarsi con questa inedita e per alcuni versi necessaria consapevolezza. Il capitale, il lavoro e la sua rappresentanza, lo Stato diversamente declinato, hanno un compito paradigmatico, ma faticano a comprenderlo. Analoghe considerazioni si possono fare rispetto alla politica. Teoricamente avrebbe un ruolo potente, ma è troppo “ignorante” (Leon), nel senso che fluttua tra la speranza di uscire dalla crisi conservando in tutto o in parte le istituzioni reaganiane, e la possibilità di un governo di stampo keynesiano, con delle rappresentazioni che non fanno giustizia né di Reagan, né di Keynes.
Alcune riflessioni erano emerse con la così detta della stagnazione secolare. Paolo Leon, nel suo ultimo libro “I poteri ignoranti”, quando tratta la così detta stagnazione secolare, ricorda a Summers che «se i tassi di crescita si sono abbassati nel lungo periodo, è anche dovuto all’effetto della dimensione assoluta, perché, al crescere del PIL, il tasso non può riflettere volumi sempre più grandi».
L’aspetto sottovalutato della produttività
Sebbene la crescita dei Paesi emergenti, dove è confluita una parte della produzione dei Paesi a capitalismo maturo, continua su basi solide ed è alimentata da una domanda potenziale (livello della popolazione) che garantisce ampi margini di manovra e crescita sostenibile, l’integrazione del mercato globale ne condiziona il suo futuro.
Un aspetto sottovalutato nella discussione di questa crisi da coronavirus è quello relativo alla produttività. Questa è già mutata nel tempo e con il coronavirus muterà ancor più in profondità se ritornerà il presidio pubblico nei beni pubblici e forse comuni.
Facciamo un approfondimento sulla questione. Per definizione il settore dei servizi utilizza meno capitale del settore industriale. In altri termini, il settore dei servizi con difficoltà intercetta i progressi tecnologici e la produttività ad essa connessa, ma nel contempo i salari continuano a crescere allo stesso tasso del settore manifatturiero. Tuttavia, la loro domanda non diminuisce rispetto a quella dei beni manifatturieri in ragione della crescita dei bisogni individuali, con l’effetto di una minore produttività aggregata.
Felice Roberto Pizzuti osserva che «nella generalità dei Paesi, i settori la cui dinamica della produttività è stata superiore alla media dei rispettivi sistemi produttivi sono per lo più quelli manifatturieri, mentre il contrario si è riscontrato nei settori dei servizi; la quota di valore aggiunto rispetto al PIL è diminuita per la generalità dei settori manifatturieri ed è aumentata per la generalità dei servizi; la maggiore espansione settoriale dei servizi si è verificata anche per l’occupazione. La domanda e la produzione nel settore con minor dinamica di produttività sono addirittura aumentate rispetto a quelle nel settore più dinamico».
Due nuove guerre mondiali
La Storia dell’umanità ha attraversato problemi identici ma non per questo il progresso e il benessere è venuto meno: la diseguaglianza potrebbe ben essere risolta; l’ambiente più che un freno, in realtà, potrebbe ben essere una grande occasione, una sorta di quarta guerra mondiale per la sostenibilità sociale ed economica dello sviluppo (la terza l’associo al coronavirus).
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Senza un nuovo orizzonte intellettuale, riecco le idee neoliberali
Quello che sappiamo della terza guerra mondiale è troppo poco e chi la pensa di uscirne con spese una-tantum è fuori strada. Tanto prima riusciamo a delineare cosa ci aspetta dopo, tanto prima riusciamo a svoltare. Si tratta di uno spazio di ricerca inedito, che fuoriesce dalla cosiddetta scienza normale che, come in tutte le grandi crisi, condiziona i grandi cambiamenti degli orientamenti della macroeconomia.
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Diversamente, come evidenza Salvatore Biasco: «Finché un nuovo orizzonte politico e intellettuale, di principi, di governo della società, di creazione della ricchezza, di concezione dei rapporti sociali rimarrà inarticolato e non riuscirà a generare una mobilitazione di massa, l’imprinting farà riapparire le idee neoliberali come unica saggezza convenzionale che l’opinione pubblica ha più facilità a percepire e a cui finisce per aggrapparsi».
Cosa fare? Forse sarebbe utile consegnare all’Europa, al Paese e al lavoro la realtà per quella che è, evitando soluzioni a portata di mano. Se è finita un’era economica e politica, e nel mentre non si intravvedono nuove istituzioni coerenti con questo capitalismo all’ennesima metamorfosi, è il momento di liberarsi dai pregiudizi e dalle aspettative personali.