Gli investimenti ESG valgono 31mila miliardi di dollari. Ma occhio ai «falsi»
La finanza sostenibile ESG vale oltre un terzo del Pil globale. Ma il successo favorisce il greenwashing e la diffusione di investimenti controversi
Nel mondo gli investimenti ESG – ispirati cioè alla compatibilità con i fattori ambientali, sociali e di corretta gestione d’impresa (Enviroment, Social, Governance, appunto) – valgono 30.700 miliardi di dollari. Oltre un terzo del Pil globale. Lo sostiene, nel suo ultimo rapporto, la Global Sustainable Investment Alliance (GSIA) analizzando i dati disponibili ad aprile 2019. Il calcolo comprende tutti gli asset presenti nei portafogli degli investitori che sono stati scelti in base ad almeno uno dei sette criteri di sostenibilità comunemente accettati:
- Esclusione di titoli dall’universo investibile
- Screening normativo (Norms-based screening)
- Azionariato attivo
- ESG Integration
- Selezione di titoli “best-in-class”
- Investimenti a tema sostenibile (Sustainability-themed)
- Impact Investing (investimento a impatto positivo)
Scelte etiche, a voler semplificare ma non troppo, che condizionano positivamente, nelle intenzioni, le strategie di investimento. Il dato conferma una consolidata tendenza alla crescita: +34% rispetto alla cifra diffusa due anni fa (22.900 miliardi di dollari).
I numeri, tuttavia, vanno contestualizzati. Perché nel mare magnum delle operazioni sostenibili non mancano scelte controverse capaci di attirare le immancabili accuse di greenwashing. Ma andiamo con ordine.
Investimenti ESG: vince l’esclusione
Nella maggioranza dei casi gli asset ESG sono definiti come tali dopo aver passato un criterio di selezione basato sulle esclusioni. I gestori, in altre parole, fissano alcune discriminanti e scelgono di non investire in titoli giudicati incompatibili con i principi etici basilari. Ad esempio le azioni delle compagnie accusate di violare i diritti umani o dei lavoratori, che danneggiano l’ambiente. O escludono dal proprio portafoglio interi settori giudicati controversi. Per esempio tabacco o armi. Gli asset inseriti in portafoglio dopo questa scrematura valgono attualmente 19,8 trilioni di dollari, o 19.800 miliardi di biglietti verdi che dir si voglia.
A seguire, nella classifica generale, gli asset che rispettano la cosiddetta ESG integration. Ovvero, secondo la definizione dell’ONU, l’inclusione esplicita e sistematica da parte dei manager dei fattori ambientali, sociali e di governance nell’analisi finanziaria tradizionale. Negli ultimi due anni il valore dei titoli riconducibili a questa categoria di selezione è cresciuto del 69%. Fino a quota 17.500 miliardi. Nota bene: la somma dei valori delle singole categorie di selezione supera il volume complessivo degli investimenti ESG, visto che nella maggior parte dei casi la scelta dell’asset si realizza ricorrendo a più criteri.
Un trend in crescita
Particolarmente rilevante il peso degli asset scelti in base al criterio del corporate engagement. 9.800 miliardi di dollari, più 17% rispetto al valore registrato due anni prima. Per capirci parliamo dei titoli di quelle società caratterizzate da fenomeni di azionariato attivo. Ovvero dall’impegno degli azionisti stessi nell’influenzare positivamente i comportamenti del management in campo ESG. Meno rilevanti in valore assoluto i dati relativi agli altri criteri, anche se i tassi di crescita degli asset appaiono tendenzialmente molto più significativi.
Più 269% a due anni per i titoli sustainability-themed (che interessano cioè aree di investimento che sono tipicamente correlate con l’idea stessa di “sviluppo sostenibile”); +125% per i best-in-class (selezione delle imprese capaci di ottenere i migliori punteggi ESG all’interno del loro comparto); +79% per l’impact investing (l’insieme delle operazioni che si ritiene possano avere un impatto positivo sullo sviluppo sostenibile). Rispetto alla tendenza generale una sola eccezione: gli investimenti norms-based screening, che coinvolgono le imprese giudicate compatibili con gli standard minimi di business practice basati sulle normative internazionali di riferimento, sono calati in due anni del 24% scendendo a quota 4,7 trilioni di dollari.
Comanda l’Europa, ma occhio al Giappone
I dati sui singoli mercati confermano il dominio di Europa e Stati Uniti. Gli asset ESG gestiti sulle due sponde dell’Atlantico valgono 26 trilioni di dollari, circa i 5/6 del totale. Il Vecchio Continente conserva il suo primato (14mila miliardi), ma il suo tasso di crescita è il più basso tra le varie regioni (+11% in due anni nel calcolo in euro contro il +38% degli USA misurato in biglietti verdi). Il Giappone, al contrario, continua a evidenziare un’espansione senza eguali. Tra il 2016 e il 2018 gli asset ESG gestiti dai manager nipponici sono saliti del 307% dopo essere cresciuti addirittura del 6700% nel biennio precedente. Canada, Australia e Nuova Zelanda pesano ovviamente meno in valore assoluto ma in questi tre Paesi, osserva la ricerca, i titoli ESG rappresentano oltre la metà degli asset gestiti dai fondi di investimento. Non male.
Greenwashing in agguato nel mondo ESG
I numeri, insomma, appaiono più che lusinghieri. Ma attenzione: la crescita del comparto ESG rischia anche di alimentare una certa proliferazione di falsi d’autore, prodotti finanziari qualificati come sostenibili ma che di sostenibile hanno davvero poco. È la vecchia storia del greenwashing, concetto elaborato per la prima volta nel 1986 dall’ambientalista statunitense Jay Westerveld in risposta alle campagne pubblicitarie del colosso petrolifero Chevron. Negli anni il significato dell’espressione si è esteso largamente così da comprendere tutte le operazioni di make up aziendale finalizzate ad offrire un’immagine positiva agli occhi del pubblico.
Il fenomeno, per l’appunto, riguarda anche gli investimenti ESG. Nell’aprile di quest’anno una ricerca di Morningstar, ha citato diversi esempi di maquillage etico. Tra questi spiccava il caso di un fondo, tale Impact US Equity Fund, che si proponeva di «investire in un portafoglio di titoli azionari di società con un impatto sociale aggregato positivo». Peccato però che l’elenco assomigliasse di più a una fiera di titoli controversi: da Johnson & Johnson e Wells Fargo a Facebook e Goldman Sachs, per non parlare del colosso petrolifero Exxon.
Gli incentivi all’inganno «sono sempre più forti»
Sul tema è intervenuta di recente anche la società di gestione patrimoniale olandese Robeco. L’analisi, pubblicata a maggio, puntava il dito sui diversi sistemi di labeling applicati in Europa, ovvero l’insieme dei criteri che consentono di classificare fondi e prodotti finanziari come autenticamente ESG. Le differenze restano notevoli e lasciano ampio margine di manovra.
«Gli investimenti ESG rischiano di diventare vittime del loro stesso successo», scriveva alla fine dello scorso anno la rivista Quartz. Secondo George Serafeim, docente alla Harvard Business School ed esperto di finanza sostenibile interpellato dallo stesso magazine, il settore si starebbe sviluppando «in modo estremamente disordinato a causa della carenza di standard comuni in grado di misurare, analizzare e comunicare la performance ambientale, sociale e di governance». In questo contesto, spiega il docente, «gli incentivi al greenwashing da parte dei manager sono sempre più forti».