«Ecco perché investire nelle infrastrutture Ue sostiene la crescita»
Carlo Secchi (ISPI): le reti di trasporto, energia, telecomunicazioni, sistemi satellitari e progetti aerospaziali aiutano subito Pil e occupazione oltre a benefici di lungo termine
«Nel pensare a misure di rilancio dell’economia va assolutamente tenuto in primo piano il tema delle infrastrutture: investire su questo fronte produce non solo reddito e aumento dell’occupazione nell’immediato ma anche effetti di medio-lungo periodo come aumenti di produttività e miglioramento della competitività delle imprese. Il tutto si traduce in ricadute positive sui cittadini. Chi taglia investimenti alle infrastrutture è un po’ come il contadino che in tempi di carestia mangia le sementi. Circolano bozze di un prossimo decreto che completi il “Cura Italia” con passaggi sull’integrazione della rete infrastrutturale: speriamo che quel piano rimanga perché è molto importante per rimettere in moto l’economia con vantaggi duraturi».
Carlo Secchi, vicepresidente dell’Istituto di studi di politica internazionale (ISPI) del quale coordina l’Osservatorio infrastrutture, è coordinatore per la Commissione Europea del corridoio Atlantico delle Reti trans-europee di trasporto (Ten-T) e nel 2019 ha curato uno studio del Centro sulle infrastrutture dell’Ispi.
Gli investimenti in infrastrutture in UE aiutano la crescitaProfessor Secchi, quali sono le vostre stime sul ritorno degli investimenti nella rete Ten-T per il Pil e l’occupazione?
Una precedente analisi realizzata da Fraunhofer Institute come capofila di un gruppo di enti di ricerca per la Commissione europea ha quantificato gli effetti sul Pil e sull’occupazione del completamente della rete Ten-T. Come tutti gli studi previsivi, ovviamente quella ricerca è testata nel limite delle ipotesi sottostanti. In ogni caso però è dimostrato un ritorno più che proporzionale rispetto all’investimento, oltre a altri effetti come l’aumento di produttività, di efficienza produttiva, di qualità della vita.
Oltre agli effetti su reddito e occupazione, negli anni più recenti si sono aggiunte anche altre priorità di politica economica: il miglioramento dell’ambiente, la decarbonizzazione, il recepimento nelle modalità più consone e adeguate delle nuove tecnologie digitali. Se da un lato c’è necessità di investire in infrastrutture tradizionali, ad esempio il tunnel del Brennero, dall’altro servono investimenti che conducano a un cambiamento nei modi di trasporto per l’ambiente e allo sviluppo delle tecnologie digitali, come l’intelligent and smart transport, i veicoli autonomi, il platooning dei veicoli industriali e le altre forme di efficientamento.
Quali sono gli ostacoli principali a questi investimenti?
È difficile trovare argomenti contrari a questi progetti. Il vero problema è trovare le risorse perché il fabbisogno per realizzarli è colossale. Solo il completamento della rete core dei nove corridoi principali del Ten-T richiederebbe entro il 2030 l’investimento di 500 miliardi di euro. Una somma che a oggi pare difficile reperire.
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In questa situazione di emergenza si possono immaginare forme di raccolta collettive come gli eurobond o i coronavirus-bond?
L’indebitamento richiede che qualcuno sottoscriva i titoli di debito. Ma l’idea di ricorrere a un indebitamento senza limiti è abbastanza improponibile perché, anche nell’ipotesi di una piena sovranità monetaria, l’eccesso di indebitamento non sostenibile produce inflazione. Certo l’indebitamento può essere aumentato, c’è molta liquidità sui mercati in cerca di sbocchi ragionevoli e le condizioni potrebbero essere positive. Ma pensare a titoli di debito europei a garanzia collettiva è passo molto complicato, perché significa immaginare una sovranità condivisa che richiede anche la condivisione del modello economico.
Per quale motivo i Paesi con un modello economico fatto di bilanci in pareggio e spese prevalentemente per investimenti dovrebbero condividere il destino finanziario dei Paesi con un modello basato su deficit e spesa corrente?
Qualche solidarietà c’è ma non bisogna illudersi che improvvisamente si trovi l’accordo tra Stati formiche e Stati cicale.
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Quali sono allora le risorse che possono essere messe in campo?
A livello europeo esistono strumenti collettivi di garanzia come quelli previsti dal cosiddetto “piano Juncker”, che condividono rischi e quindi potenziale indebitamento. Occorre in primis lavorare su quelli, così come sul piano da mille miliardi annunciato prima dell’epidemia dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Sono passi obbligatori per andare verso strumenti di debito europei veri e propri, ma non illudiamoci che il passaggio sia facile.
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Di recente il think tank europeo Bruegel ha lanciato l’idea che l’Unione Europea segua la politica di investimenti nella ricerca tracciata da decenni dagli Stati Uniti e si doti di un equivalente della Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency), l’agenzia del Pentagono per i progetti di ricerca avanzata. Secondo lei si tratta di una idea positiva e realizzabile?
Nel modello Usa il grande motore degli investimenti in ricerca è il Pentagono. In Europa credo invece che debba essere usato bene ciò che già c’è. Ad esempio il programma comunitario Horizon 2020 che negli ultimi sette anni ha investito 80 miliardi di euro nella ricerca. Un programma che ora diventerà Horizon Europe e sarà il motore degli investimenti Ue.
Questo piano può portare allo sviluppo di novità tecnologiche utili all’industria e può ulteriormente potenziare altre iniziative di ricerca innovazione e sviluppo. D’altronde lo stesso network Ten-T comprende non solo i trasporti, ma anche le reti energetiche e quelle digitali delle tlc.
Credo improbabile che la Ue realizzi una propria agenzia simile a Darpa, perché il tema della difesa e della sicurezza entra nel merito delle politiche dei singoli Stati e quindi crea tensioni interne. Ma già nel progetto Ten-T sono previsti sussidi pari a 6 miliardi per realizzare interventi relativi alla mobilità militare in modo da adattare le reti di infrastrutture alle esigenze di sicurezza e difesa. È un primo passo per andare oltre alla visione conservativa del nostro sistema di infrastrutture e legarlo anche a una dimensione politica e strategica comune.
A suo avviso, oltre agli investimenti in infrastrutture “tradizionali”, quali sono le reti infrastrutturali di altro tipo di cui l’Unione dovrebbe dotarsi?
L’Unione europea è sempre stata molto attiva nel campo degli investimenti nella space economy e ha una propria strategia per questo settore. Pur non essendo dotata dei mezzi degli Usa e non avendo scopi militari, l’Agenzia spaziale europea (Esa) ha lanciato un numero elevatissimo di satelliti come quelli del progetto Galileo. L’impatto è stato rilevante non solo nella navigazione aerea ma anche nel monitoraggio del clima, dell’ambiente, dell’agricoltura e della pesca. C’è spazio per questi e anche per molti altri investimenti. Ad esempio per quelli per migliorare l’efficienza delle reti di trasporto come il sistema di controllo del traffico ferroviario Ertms (European rail traffic management system).
Il fatto di aver come riferimento lo spazio comune economico europeo e un sistema omogeneo per tutti i Paesi ha fatto sì che l’Europa sia protagonista in questo ambito e abbia messo alcune industrie, anche italiane, in grado di essere leader mondiali in questo settore. Questo genere di esempi ci mostra come questi investimenti siano da privilegiare anche per mantenere la frontiera tecnologica e per riutilizzare le loro ricadute per tutti.