Coronavirus? «Come Sars ed Ebola»: un figlio dello sviluppo insostenibile
L'università La Sapienza: allevamenti e agricoltura intensiva , perdita di foreste, cambiamenti climatici, smog minacciano la salute e ci sono già costati $160 miliardi
C’è un legame tra il nostro modello di sviluppo e l’insorgenza di un’emergenza sanitaria come quella rappresentata dal Coronavirus (Covid-19)? Ci sono strategie che possiamo mettere in campo per ridurre il rischio di insorgenza di epidemie e potenziali pandemie? La risposta, per entrambe le domande, è sì. A fornirla è un articolo scientifico pubblicato sulla rivista PNAS ed elaborato sotto il coordinamento del dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin dell’Università La Sapienza, in cui si mette in relazione il fenomeno della diffusione delle malattie infettive con l’azione dell’uomo sulla natura.
Nello studio si indagano infatti le similitudini e le ricorrenze che avvicinano l’attuale epidemia originata nella provincia cinese di Hubei, e causata da un coronavirus simile a quello della Sars, con una serie di episodi recenti che hanno infiammato ampie zone del Pianeta: la diffusione di Ebola in Africa occidentale, le ben note Sars e H1N1, il virus Zika che aveva le zanzare come vettore o la MERS.
La pericolosa perdita di habitat naturali
Tutte queste pandemie hanno una cosa in comune: sono di origine zoonotica, sono trasmesse cioè dagli animali, soprattutto selvatici. In particolare, scrivono i ricercatori, «circa il 70% degli EID (Emerging Infectious Diseases, cioè le malattie infettive emergenti, ndr), e quasi tutte le pandemie recenti, hanno origine negli animali (la maggior parte nella fauna selvatica) e la loro emergenza deriva da complesse interazioni tra animali selvatici e/o domestici e umani».
Ma siccome i focolai di queste epidemie sono stati associati ad attività e comportamenti di origine antropica – «alle alte densità di popolazione umana, ai livelli insostenibili di caccia e di traffico di animali selvatici, alla perdita di habitat naturali (soprattutto foreste) che aumenta il rischio di contatto tra uomo e animali selvatici e all’intensificazione degli allevamenti di bestiame (specie in aree ricche di biodiversità)», è possibile in qualche misura ridurne o controllarne il rischio.
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Rischio pandemia: punto cieco nelle strategie dello sviluppo sostenibile
Eppure proprio questa opportunità andrebbe puntualmente sprecata. Tanto che i ricercatori affermano che il rischio di insorgenza di malattie infettive rappresenta un punto cieco nei piani di sviluppo sostenibile. A tale aspetto non vengono dedicate risorse adeguate, benché ormai esistano modelli piuttosto accurati di previsione.
«L’interazione tra cambiamento ambientale e rischio di pandemie – afferma il coordinatore dello studio Moreno Di Marco – non ha ricevuto sufficiente attenzione. Auspichiamo che tale aspetto diventi una parte integrante e prioritaria dei piani di sviluppo sostenibile, affinché sia possibile prevenire, piuttosto che reagire a potenziali conseguenze catastrofiche per l’umanità».
In sostanza, mentre è crescente l’interesse politico nelle interazioni tra i cambiamenti climaticiVariazione dello stato del clima rispetto alla media e/o variabilità delle sue proprietà che persiste per un lungo periodo, generalmente numerosi decenni.Approfondisci globali e la salute umana, a cominciare da mortalità e morbilità da fenomeni meteorologici estremiSi tratta di fenomeni considerati “rari”. Le caratteristiche delle condizioni meteorologiche estreme possono variare da un luogo all’altro.Approfondisci per arrivare all’asma correlato all’inquinamento, le interazioni tra cambiamento ambientale e insorgenza di malattie infettive risultano trascurate. Sottovalutate, forse, nonostante le ampie prove che suggerirebbero di agire in modo contrario.
«Ad esempio, la comparsa del virus Nipah in Malesia nel 1998 era in un legame causale con l’intensificazione della produzione di suini ai margini delle foreste tropicali, dove vivono i bacini di pipistrelli della frutta; le origini dei virus SARS ed Ebola sono state ricondotte a pipistrelli cacciati (SARS) o che abitano regioni in crescente sviluppo umano (Ebola)».
Pianificazione e controlli per l’intervento umano
Se azzerare il rischio non si può, i ricercatori sottolineano l’importanza di esserne tuttavia più coscienti. Certi virus sono infatti endemici nelle popolazioni di animali selvatici e magari sono il corrispondente del nostro raffreddore. Il problema nasce allorché vengono trasmessi all’uomo, il cosiddetto spillover, con un passaggio diretto o magari tramite ospiti intermedi, come gli animali domestici e d’allevamento. E il rischio cresce nel caso di attività umane che impongono modifiche ambientali importanti, come la perdita di grandi estensioni di habitat motivato dallo sviluppo di allevamenti intensivi e attività agricole; oppure col traffico, legale o illegale, di animali selvatici che poi vengono portati nei mercati.
«Tutte queste sono attività a rischio, e ci deve essere una prevenzione soprattutto nelle zone tropicali, laddove la biodiversità è più alta – spiega Di Marco – laddove è maggiore il numero di specie selvatiche e più alto è il potenziale numero di animali ospiti da cui i patogeni possono derivare. In un Paese dove si fa, ad esempio, un piano di sviluppo per aumentare la produzione di cibo, di energia oppure l’estrazione di risorse primarie, sull’altro piatto della bilancia, prima di decidere, bisognerebbe cercare di capire cosa comporta in termini di potenziale rischio».
Ci vuole insomma una maggiore responsabilità delle nazioni sulle pianificazioni di questo tipo. In caso di una deforestazione aumenta infatti il numero di esseri umani che accede all’area o lavora per disboscarla, e si intensificano le occasioni di contatto tra animali selvatici e domestici una volta avviata l’attività di imprese agricole, pascoli e stalle. Inoltre questi interventi possono alterare gli equilibri all’interno della stessa fauna selvatica, favorendo specie o famiglie di animali rispetto ad altre, e questo avrà un effetto anche sulla comunità di patogeni che le specie di animali selvatici ospitano.
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Miliardi di dollari di costi in un mondo sempre più connesso
Siamo insomma di fronte a un sistema complesso di cui tenere conto. E vivendo in un mondo sempre più connesso, l’insorgenza di una zoonosi è oggi molto più pericolosa di 20 o 30 anni fa, quando si viaggiava meno e la possibilità di contagio era molto più limitata. Ma non solo. Perché anche i rischi economici lievitano progressivamente. E per quanto il coronavirus non abbia ancora – e non è detto che mai ci arrivi – lo status di pandemia, l’impatto finanziario ed economico globale si fa già ampiamente sentire. E il tema non è misconosciuto nemmeno dai ricercatori romani.
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«Il discorso dei costi è decisamente importante. Uno deve ragionare sul fatto che ridurre la perdita di habitat vuol dire ridurre le risorse che possiamo produrre, o rallentarne la produzione. D’altro canto, quanto ci costa una pandemia?
Per quanto riguarda l’outbreak (lo scoppio epidemico, ndr) di Covid-19 non ci sono ancora stime complessive, ma quelle preliminari parlano di un costo a livello globale già superiore ai 150 miliardi di dollari».
Crescita cinese in brusca frenata
In un’analisi pubblicata da «Bloomberg» la stima è già intorno ai 160 miliardi di dollari. Complice il ruolo sempre maggiore che l’economia cinese – attualmente la più colpita – ricopre rispetto al Pil mondiale. Del resto, stando alle stime di Chang Shu, capo economista asiatico della testata, il combinato disposto di riduzione dei consumi, degli investimenti e della produzione che il virus ha determinato potrebbe tradursi in vero crollo del Pil cinese. Nel primo trimestre 2020 potrebbe vedere una crescita del 4,5%, ovvero il dato più basso dall’inizio dei dati trimestrali nel 1992. E ciò con effetti a catena in primis avvertiti da Hong Kong, Corea del Sud e Giappone. Ma non è immune l’Occidente, dove la diffusione del coronavirus è ancora in crescita.
Un aspetto va ricordato: la Sars è stata dichiarata emergenza sanitaria globale nel marzo 2003. A luglio dello stesso anno è stata considerata contenuta. Insieme a Ebola, H1N1, Zika, MERS è costata decine di miliardi di dollari di danni. Tanto dovrebbe bastare per capire che la prospettiva deve cambiare. «Secondo me – conclude Di Marco – non è tanto importante chiedersi quanto ci costerebbe operare secondo uno sviluppo sostenibile, ma quanto ci costa non averlo fatto e continuerà a costarci se non cambiamo strategia. Oggi che, forse per la prima volta nella storia, abbiamo potenzialmente le capacità tecniche e gli strumenti per fare un po’ di prevenzione».