20 multinazionali dell’oil & gas producono da sole il 30% delle emissioni
Calcolato per la prima volta l'impatto dei big dell'oil & gas. Una manciata di loro basta a compromettere il clima mondiale. E molti "cattivi" sono pubblici
Bastano le maggiori 20 multinazionali del settore del gas e del petrolio per produrre oltre il 30% delle emissioni industriali cumulative globali. Un dato impressionante che riguarda la storia dei combustibili fossili tra il 1988-2015. E che diventa abnorme se si considera che la Top Ten di quella stessa lista vale da sola quasi il 22% dei gas serra.
Queste cifre emergono da un’analisi (Oily politics: A critical assessment of the oil and gas industry’s contribution to climate change) pubblicata a novembre scorso sulla rivista scientifica Energy Research & Social Science. A firmare il documento, «il primo articolo scientifico (al mondo) che affronta in modo ampio questo tema», è un professore italiano, Marco Grasso, docente dell’Università di Milano-Bicocca, esperto di politica e governance dei cambiamenti climatici.
Lo studio esamina – dati alla mano – «tutte le emissioni di gas serra che non provengono da fonti “naturali”, tipo allevamento, deforestazione, incluse quelle che derivano dai trasporti o dall’uso domestico. Perché comunque i combustibili usati, per esempio, per muoversi e per scaldarsi e rinfrescarsi conseguono dall’industria petrolifera che li estrae, produce, vende».
Al centro del lavoro c’è insomma l’enorme, decisivo contributo che questo pugno di compagnie ha fornito – e continua a fornire – nell’accelerazione dei processi di riscaldamento globale. Il contributo si manifesta sia attraverso percentuali elevatissime delle emissioni industriali globali (CO2 e metano), sia foraggiando a suon di milioni di dollari la minoranza di negazionisti scientifici che rallentano il contrasto ai cambiamenti climatici in atto.
Il petrolio pubblico seduto ai tavoli sul clima
Oltre alle cifre lo studio mette in fila una serie di distorsioni, inaccettabili alla luce degli sforzi globali che il contrasto agli effetti devastanti del climate change richiederebbe a tutti gli attori in causa. Sforzi economici per la mitigazione e la transizione energetica necessaria, ma anche di impegno politico generale.
In particolare si sottolinea il coinvolgimento diretto e prevalente degli Stati nella proprietà di molte di queste multinazionali. Le cosiddette National Oil Companies (NOCs) che, in confronto alle società private o a maggioranza privata (International Oil Companies, IOCs), hanno un soggetto pubblico come azionista di riferimento. Lo stesso soggetto pubblico che poi è chiamato a sedersi nei consessi internazionali dove si elaborano e finanziano le politiche di lotta ai cambiamenti climatici, ad esempio le varie COP (Conference of the Parties).
Tra le NOCs si trovano le principali compagnie petrolifere del mondo, come China National Petroleum, la russa Gazprom, National Iranian Oil, e Saudi Arabian Aramco. Società che rappresentano una produzione
intorno al 10% del greggio mondiale. Senza contare che le NOCs controllano circa il 90% delle riserve di petrolio e di gas, gli si attribuisce una quota della produzione mondiale di petrolio del 75% e gestiscono la maggior parte delle infrastrutture.
Paradossi inaccettabili
E così, mentre le 60 maggiori aziende petrolifere e del gas contribuivano a produrre oltre il 40% delle emissioni industriali cumulative globali nel periodo 1988-2015, allo stesso tempo continuavano a fare affari. Nel solo 2018, il settore petrolifero e del gas ha registrato ricavi per 2 trilioni di dollari (2 miliardi di miliardi di dollari).
Ci si aspetterebbe che a queste stesse compagnie venisse richiesto (o imposto) un coinvolgimento adeguato nella sfida climatica promossa dalle istituzioni. E invece si assiste a una serie di ulteriori paradossi che danno il segno degli equilibri in gioco.
Chi finanzia i negazionisti climatici
Metà delle emissioni risalenti alle novanta corporation responsabili si sono verificate a partire dal 1986. Ciò a dimostrazione della crescente velocità con cui vengono bruciati i combustibili fossili. Ma anche a testimonianza di quanto sia stato ignorato l’allarme sui cambiamenti climatici che la prima relazione di valutazione dell’IPCC (1990) avrebbe dovuto generare dopo essere stata accettata sostanzialmente alla Conferenza di Rio sul clima del 1992.
Tra il 2000 e il 2016 l’industria dei combustibili fossili ha speso oltre 2 miliardi di dollari per influenzare la legislazione sul clima nel Congresso degli Stati Uniti. Una somma 10 volte maggiore di quella spesa da gruppi ambientalisti e aziende del settore dell’energia rinnovabile. ExxonMobil, solo per fare un esempio, è stata tra chi ha finanziato alcuni dei 44 gruppi che ai primi di maggio 2017 hanno scritto una lettera al presidente Donald Trump perché portasse gli Stati Uniti fuori dall’Accordo di Parigi sul clima. Decisione poi annunciata da Trump il primo giugno dello stesso anno.
Vittime della loro stessa politica
La stessa industria petrolifera è sia tra le principali responsabili che vittima del riscaldamento globale (e dei conseguenti eventi climatici estremi sempre più frequenti). Può succedere allora – come riporta AP – che venga avanzato un progetto per costruire «una “spina dorsale” di quasi 60 miglia di muri di cemento, terrapieni, cancelli galleggianti e argini in acciaio sulla costa del golfo del Texas». Un’opera a protezione di un tratto ad altissima concentrazione di impianti petrolchimici, «inclusa la maggior parte delle 30 raffinerie del Texas, che rappresentano il 30% della nazione capacità di raffinazione». Un piano da 12 miliardi di dollari, che sarà quasi interamente coperto da fondi pubblici.
Petrolio ma anche carbone e cemento. I 100 “baroni del carbonio”
Oily politics: A critical assessment of the oil and gas industry’s contribution to climate change si focalizza sull’industria petrolifera, ma trae spunto innanzitutto dall’ultimo rapporto pubblicato dal Climate Accountability Institute. Il CDP Carbon Majors Report 2017 estende l’analisi fino a comprendere 100 società, individuate come responsabili di circa 2/3 delle emissioni globali di gas serra prodotte negli ultimi due secoli. Per una lista che al 30° posto inserisce l’italiana Eni Spa.
«Il 62% delle emissioni di anidride carbonica e metano nel periodo 1751-2015 – precisa infatti Grasso – dipendono da 100 “baroni del carbonio” (appartenenti alle industrie del petrolio e gas, carbone e cemento). A queste imprese sono imputabili il 71% delle emissioni industriali globali dal 1988.
Addirittura, un altro studio suggerisce che le emissioni storiche (1880-2010) e recenti (1980-2010) di queste 100 imprese hanno contribuito a circa il 57% dell’aumento osservato della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, a circa il 42-50% dell’aumento della temperatura media terrestre globale e a circa il 26-32% dell’innalzamento del livello globale dei mari nel periodo 1880-2010».
Se è vero che «a un grande potere corrisponde una grande responsabilità», trova senso l’ammonimento del professor Grasso verso tutte queste compagnie, pubbliche e private, a modificare drasticamente il loro modello operativo e di business. Richiamando, per il prossimo futuro dei combustibili fossili, un processo di condanna sociale e limitazione normativa simile a quelli che hanno riguardato tabacco e schiavitù.