Il fiume di denaro dei super inquinatori per bloccare le riforme climatiche europee

Da BP, Chevron, Exxon, Shell e Total 251 milioni in nove anni per contrastare le politiche Ue in favore del clima e ottenere norme meno severe

Matteo Cavallito
© Julien Gomba/Flickr
Matteo Cavallito
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Le cinque maggiori corporation globali del fossile hanno speso almeno un quarto di miliardo di euro in meno di dieci anni per contrastare la legislazione a tutela del clima in sede UE. Lo ha rivelato a ottobre una ricerca congiunta delle organizzazioni non governative Corporate Europe Observatory, Food & Water Europe, Friends of the Earth Europe e Greenpeace.

L’indagine, realizzata all’interno dell’iniziativa Fossil Free Politics, una campagna internazionale che coinvolge oltre 200 associazioni della società civile, è stata condotta analizzando i dati diffusi dalla stessa UE nel Registro per la trasparenza che raccoglie i contributi versati dai gruppi di pressione nelle attività di lobbying. Ma l’adesione al registro resta volontaria e i dati in esso contenuti – che non comprendono per altro i finanziamenti alle singole istituzioni nazionali – sono dunque parziali.

L’ammontare totale della spesa delle top 5, in altre parole, sarebbe insomma decisamente superiore rispetto alla cifra rilevata dal rapporto.

Dalle Big Oil un assegno da 251 milioni

In prima fila nell’offensiva contro il clima ci sarebbero la britannica BP, le statunitensi Chevron ed Exxon, l’anglo-olandese Shell e la francese Total. Cinque nomi noti, insomma, pesi massimi del mercato e della bilancia dell’impatto ambientale: tra il 1988 e il 2015, segnala il rapporto, le cinque corporation sarebbero state responsabili del 7,4% delle emissioni gassose registrate nel Pianeta. E non è un caso che le medesime compagnie abbiano mobilitato ingenti risorse per tutelare i propri interessi in sede politica.

I dati parlano chiaro: tra il 2010 e il 2018 la loro spesa in attività di lobbying è stata pari a 123 milioni di euro. Ma a questi si aggiungono altri 128 milioni stanziati da altri tredici gruppi di pressione collegati alle stesse società. La cifra complessiva sale così a 251 milioni in 9 anni. Non male.

Immagine: Corporate Europe Observatory, Food & Water Europe, Friends of the Earth Europe, Greenpeace, “Big Oil and gas buying influence in Brussels”, ottobre 2019.

…per indebolire la legislazione sul clima

Dal punto di vista delle multinazionali, verrebbe da dire, si tratta davvero di soldi ben spesi. Almeno considerando il tenore delle risposte politiche della UE. «Dal 2010, le norme più importanti prodotte da Bruxelles su clima, energia e non solo sono state annacquate e indebolite in linea con le richieste dell’industria» si legge nel rapporto. E ancora: «Gli obiettivi UE sul clima per il 2030 sono stati concordati senza vincoli di risparmio energetico e con un target purtroppo inadeguato per le energie rinnovabili, mentre il gas fossile (il cui presunto scarso impatto ambientale è notoriamente contestato, ndr) rimane ancora al centro della strategia a lungo termine del continente per il 2050. L’accordo internazionale di Parigi, nel frattempo, non fa alcun riferimento ai combustibili fossili. Ma apre le porte a molte delle false soluzioni che piacciono maggiormente al settore, come la cattura e lo stoccaggio della CO2».

La vecchia Commissione nel mirino

È curioso notare, segnala poi il rapporto, come le attività di lobbying si siano ciclicamente intensificate ogni volta che la legislazione sul clima ha affrontato le tappe più importanti del suo percorso di discussione. Il picco di spesa dei gruppi di pressione, ad esempio, si è registrato nel 2014 (34,3 milioni di euro) in occasione della definizione dei già citati  target di emissione e di consumo di energia per il 2030. Gli obiettivi fissati nell’occasione, notano i ricercatori, sono risultati troppo modesti rispetto alle necessità proprio «grazie all’influenza della lobby del fossile». Nel novembre dello stesso anno Jean-Claude Juncker si insediava alla guida della Commissione inaugurando il suo mandato quinquennale.

Di lì in poi, segnala ancora lo studio, i lobbisti delle cinque maggiori corporation del fossile hanno incontrato i commissari europei 327 volte. Più di una riunione a settimana.

Il record di riunioni – 51, considerando anche quelle cui ha partecipato solo il suo staff – spetta al commissario per l’energia e il clima Miguel Arias Cañete, seguito dal collega per l’unione energetica Maroš Sefcovic (44, includendo anche qui gli incontri dei soli collaboratori) e dalla commissaria al mercato interno e all’industria Elżbieta Bieńkowska (20 riunioni, stesso criterio di calcolo).

I conflitti di interesse minacciano il clima

Il rapporto solleva ancora una volta il grande tema dei conflitti di interesse che condizionano le decisioni stesse dell’Europa. Un problema irrisolto in un mondo caratterizzato da forti pressioni da parte di una pluralità di organizzazioni differenti, non solo nel settore del fossile. Nel luglio dello scorso anno un rapporto di Corporate Europe Observatory ha accusato ad esempio i mega advisor KPMG (Svizzera), Deloitte, EY e PricewaterhouseCoopers (UK) di «aiutare le multinazionali a eludere le tasse orientando al tempo stesso la politica dell’Unione Europea» in materia fiscale. Un’influenza garantita secondo lo studio dal lobbismo e dai ricchi contratti di consulenza siglati con le stesse istituzioni di Bruxelles.

Gravi accuse a Exxon

Escludendo i fondi mobilitati dalle tredici associazioni controllate, si diceva, le cinque grandi corporation del fossile hanno speso nel periodo in esame oltre 120 milioni. Chevron è stata la più morigerata con appena 9,5 milioni contro i 18,1 di BP, i 22 di Total e i 36,5 di Shell. Il dato più elevato però lo ha fatto registrare Exxon con 37,2 milioni di esborso. Un primato emblematico per una compagnia particolarmente invisa agli attivisti pro clima.

Nelle scorse settimane una corte di New York ha aperto un procedimento contro la compagnia texana con l’accusa di aver ingannato gli investitori. Exxon, in particolare, è sospettata di aver fornito false rassicurazioni circa la propria capacità di gestire i rischi di svalutazione dei propri assets a seguito dell’introduzione di norme più severe a tutela del clima con conseguente calo della domanda di combustibili fossili. La corporation respinge tutte le accuse.

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