Trump, Bolsonaro, Putin & CO: la geopolitica nemica del clima
Sul cambiamento climatico il mondo è diviso: Trump abbandona il gruppo e ispira il Brasile. Cina ed Europa provano a collaborare. Ma non è facile
I cambiamenti climatici salgono a pieno titolo sul podio dei principali rischi globali del prossimo decennio. Parola del World Economic Forum. Che nel suo rapporto periodico pubblicato lo scorso anno ha riconosciuto il peso del riscaldamento globale nel panorama a delle maggiori criticità del Pianeta. Eppure, notano alcuni osservatori, «nonostante le prove sempre più evidenti e le preoccupanti previsioni della comunità scientifica, i decisori politici e le loro narrazioni non riescono a riconoscere la necessità di azioni urgenti di mitigazione e adattamento commisurate alla minaccia rappresentata dal fenomeno».
Il giudizio è contenuto nello studio The Geopolitics of Climate. A Transatlantic Dialogue, realizzato da Luca Bergamaschi e Nicolò Sartori, rispettivamente ricercatore associato e Responsabile del Programma “Energia, clima e risorse” dell’Istituto Affari Internazionali. Presentato nel giugno del 2018, il rapporto evidenzia le opportunità e i rischi che caratterizzano le relazioni tra i principali protagonisti della comunità internazionale impegnati a perseguire una strategia comune sul clima. E il quadro, manco a dirlo, è decisamente in chiaroscuro.
I nemici del clima
Partiamo da una premessa. Buona parte del destino politico del global warming ruota attorno agli Stati Uniti. Gli USA sono tuttora il primo emittente globale pro capite di CO2 oltre che la principale spina nel fianco della diplomazia dei cambiamenti climaticiVariazione dello stato del clima rispetto alla media e/o variabilità delle sue proprietà che persiste per un lungo periodo, generalmente numerosi decenni.Approfondisci. Le aperture dell’amministrazione Obama avevano fatto ben sperare, ma l’arrivo di Trump alla Casa Bianca nel 2016 ha cambiato le carte in tavola. Washington ha annunciato l’intenzione di ritirarsi dall’Accordo di Parigi, giudicato senza fronzoli come «l’ennesima intesa sfavorevole» per il Paese. Dietro a questo atteggiamento non c’è solo la retorica dell’America First ma, aggiungiamo noi, un vero e proprio sforzo lobbistico.
Da anni un solido think tank conservatore come il Competitive Enterprise Institute influenza in modo decisivo le scelte politiche di Trump a beneficio del petrolio, del gas e dello «splendido carbone pulito» (Sic). Musica per l’industria fossile USA e i suoi gruppi di pressione. Un po’ meno per gli scienziati, secondo i quali – prendendo per buona una recente stima – il contenimento del riscaldamento globale entro la celebre soglia dei +2° rispetto ai livelli pre-industriali (come previsto dall’Accordo di ParigiL’Accordo di Parigi è un documento d’intesa tra le nazioni facenti parte dell’UNFCCC che è stato raggiunto nel 2015 al termine della Cop21.Approfondisci, appunto) passerebbe dalla scelta di rinunciare ad estrarre il 35% del petrolio presente nel sottosuolo del Pianeta, il 52% del gas e addirittura l’88% del carbone.
Le posizioni di Bolsonaro
Le posizioni di Trump sui cambiamenti climatici hanno iniziato a fare scuola. Trasformando la linea morbida in campo ambientale in un segno distintivo di un certo populismo. Tra i Paesi più colpiti da questa epidemia c’è un peso massimo emergente dell’economia globale: il Brasile di Jair Bolsonaro. Da tempo il vulcanico presidente della nazione sudamericana sottostima pubblicamente i rischi climatici. Durante la sua campagna elettorale Bolsonaro aveva promesso di allentare i vincoli di tutela ambientale in vigore nel suo Paese. Giudicandoli un ostacolo alla crescita economica e, in particolare, allo sviluppo degli interessi dell’agroindustria. Che, guarda caso, è stata a suo tempo anche uno dei principali sostenitori della sua candidatura.
Nei primi 7 mesi dell’anno «la Foresta Amazzonica ha registrato 75.336 incendi, un aumento dell’85% rispetto all’anno precedente» ha scritto ad agosto il Washington Post.
E ancora: «Negli ultimi due anni, l’area rasa al suolo dal fuoco è più che raddoppiata, passando dalle 3.168 miglia quadrate dei primi sette mesi del 2017 alle 7.192 del gennaio-luglio 2019». Se Bolsonaro dovesse seguire l’esempio di Trump optando per il ritiro del Brasile dagli accordi di Parigi, ha sottolineato ancora il quotidiano statunitense, «gli sforzi globali per il clima subirebbero un colpo significativo».
Sul clima tocca a Cina ed Europa
Il principio vale a maggior ragione per gli Stati Uniti, sottolinea a tal proposito lo studio dell’Istituto Affari Internazionali. Sebbene alcuni singoli Stati (California e New York in particolare) e diverse imprese abbiano iniziato da tempo a perseguire autonomamente politiche pro clima, notano i ricercatori, «qualora la politica federale USA non dovesse cambiare a partire dal 2020, raggiungere gli Obiettivi di Parigi diventerebbe molto più difficile».
In questo contesto, nota ancora lo studio, Cina ed Europa sarebbero chiamate a «riempire il vuoto di potere lasciato da Trump nella corsa verso un’economia a basse emissioni». Le buone intenzioni sono evidenti: Pechino è di gran lunga il primo investitore del mondo nel campo delle rinnovabili e di recente lo stesso presidente Xi Jinping ha ribadito formalmente l’intenzione del suo Paese di impegnarsi nel contrasto ai cambiamenti climatici. Sfortunatamente, però, ad essere palesi sono anche i rischi.
Quella tensione sottile tra Europa e Russia
Da un lato ci sono i rapporti tra l’Europa e i suoi fornitori. Il calo della domanda continentale di fonti fossili, infatti, potrebbe creare tensioni con «i vicini più prossimi». Quei Paesi, cioè, che fanno un enorme affidamento sul settore oil & gas per sostenere il bilancio pubblico e per i quali un calo delle vendite potrebbe addirittura produrre, in ultima analisi, un problema di instabilità politica. Il rapporto non ne parla esplicitamente, ma il pensiero corre anche alla Russia.
Uno studio pubblicato nel 2018 dall’economista Igor Makarov insieme a due ricercatori del MIT di Boston e ripreso da Bloomberg stima che la riduzione dei consumi energetici di origine fossile in linea con quanto imposto dagli obiettivi internazionali sul clima costerebbe alla Russia fino a 0,3 punti percentuali di espansione del Pil. Equivalenti, per fare un esempio, al 25% della crescita economica prevista per quest’anno (1,2%). Mosca, di recente, ha promesso di cambiare rotta ratificando finalmente l’Accordo di Parigi, anche se l’efficacia della svolta russa, osserva ancora Bloomberg, è tutta da verificare.
Nuove dinamiche geopolitiche
A tutto questo, ovviamente, si aggiungono ulteriori dinamiche. «Da un lato ci sono cause e conseguenze dirette, come la crescita della deforestazione e l’aumento della desertificazione, soprattutto in Africa e in Medio Oriente, che colpiscono aree già povere facendo crescere la conflittualità» spiega Sartori a Valori. «Poi ci sono gli impatti indiretti: la corsa a nuove risorse essenziali per lo sviluppo di un’economia low carbon, come litio, cobalto e terre rare; e ovviamente il calo della domanda di fonti fossili. Come reagiranno quelle economie che dipendono in larga parte dagli introiti del gas e del petrolio? Riusciranno a diversificare la loro produzione e a ristrutturare i loro contratti sociali?».
Domanda aperta, ovviamente. Ma una cosa è certa: nessuna di queste trasformazioni avviene senza tensioni. E il noto caso saudita è da tempo un monito per tutte le economie eccessivamente esposte sull’oil&gas.
La Cina può salvare il mondo?
E poi la Cina, con tutte le sue contraddizioni. Pechino sarà pure leader della green economy ma ad oggi è anche il principale consumatore e produttore mondiale di carbone nonché il primo emittente di CO2. Le emissioni, ha osservato di recente la rivista Nature, «stanno aumentando proprio mentre gli altri grandi Paesi inquinatori sono giunti a una svolta». Secondo gli scienziati dell’iniziativa Climate Action Tracker, ricorda ancora la rivista, le emissioni cinesi dovrebbero raggiungere il loro picco nel 2030 come previsto da Parigi; ma l’ammontare delle stesse resta eccessivo rispetto ai limiti fissati dall’Accordo internazionale sui cambiamenti climatici.
«La Cina merita un discorso a parte» spiega ancora Sartori. «I suoi sforzi nello sviluppo delle rinnovabili sono enormi, ma a guidare la decarbonizzazione cinese non è il timore dei cambiamenti climatici quanto piuttosto la risposta al problema di un inquinamento insostenibile».
E il problema, aggiunge, «è che una transizione completa non può essere realizzata in tempi rapidi, soprattutto considerando che alcune aree del Paese – a proposito di contratto sociale – basano la propria economia essenzialmente sul carbone».
In pratica, conclude il ricercatore, è come se Pechino sperimentasse una evidente dicotomia: da un lato cresce la green economy interna, dall’altro resta significativa l’esportazione di carbone e tecnologia relativa in altre regioni del Pianeta, dai Balcani all’Africa passando per i Paesi della Belt & Road. Una dinamica, sottolinea Sartori, «che finisce per frustrare gli sforzi di decarbonizzazione di molte nazioni emergenti». L’esatto opposto di ciò che servirebbe al Pianeta.